Personaggi

Tomasi di Lampedusa

Il 23 dicembre ricorre la nascita (nel 1896) dello scrittore italiano (siciliano) Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957)
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​famoso per il romanzo “Il Gattopardo”,
it.wikipedia.org/wiki/Il_Gattopardo
scritto quando l’autore ormai aveva 56 anni, ed inizialmente rifiutato dalle importanti Case editrici Mondadori ed Einaudi, le quali non si resero conto che si trattava di un capolavoro (fu un clamoroso errore di valutazione del famoso Elio Vittorini, incaricato di esaminare l’opera).
Il romanzo apparve postumo, nel 1958, presso l’Editrice Feltrinelli; è aperta la discussione se il testo pubblicato sia quello ultimamente rivisto da Tomasi, oppure si tratti di un precedente dattiloscritto.
Quanto alle notizie biografiche, è sufficiente dire che Tomasi, di nobile famiglia (era Principe, Duca, Barone e Grande di Spagna) e benestante (era proprietario di una grande azienda agricola di famiglia), poté occuparsi di viaggi e di letture senza grandi preoccupazioni economiche.
L’unico vero “contrattempo” nella sua vita fu che dovette interrompere gli studi (che non completò mai) nel 1915, perché arruolato per la guerra; fatto prigioniero durante la battaglia di Caporetto/ Kobarid

Caporetto-Kobarid


​fu internato in Ungheria, da dove riuscì a fuggire e tornare in Italia a piedi.
​“Il Gattopardo” è almeno in parte, un romanzo autobiografico, perché tratta (cambiando i nomi dei luoghi e delle persone) le vicende storiche della famiglia dell’autore: lo stesso titolo è ricavato dallo stemma di famiglia, in cui è presente un gattopardo (nome scientifico: acinonyx jubatus; si tratta di un felino, il più veloce tra i mammiferi).
Il racconto descrive la progressiva e inarrestabile decadenza del ceto nobiliare e l’ascesa di quello borghese in Sicilia, nel quadro storico della “liberazione” (secondo altri, “conquista”) del meridione d’Italia da parte della dinastia piemontese dei Savoia, mediante l’impresa dei Mille di Giuseppe Garibaldi

Giuseppe Cesare Abba


Il romanzo affronta anche la delicata questione di quanti, nello stesso meridione, aderirono all’impresa garibaldina per tornaconto personale (i volontari di Garibaldi, che erano poco più di mille quando sbarcarono sulla costa occidentale della Sicilia, erano diventati diciottomila quando, attraversata l’isola, giunsero allo Stretto di Messina), pensando di poter trarre vantaggio dai rivolgimenti politici e sociali, convinti che alla fine nulla sarebbe cambiato, ma soltanto si avrebbero avuti nuovi dominatori al posto di quelli vecchi: una frase chiave del romanzo (divenuta tanto famosa da generare la parola italiana “gattopardesco”, sinonimo di “trasformista”) è questa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Il regista Luchino Visconti
it.wikipedia.org/wiki/Luchino_Visconti
eo.wikipedia.org/wiki/Luchino_Visconti
ha tratto dal romanzo un film altrettanto famoso
it.wikipedia.org/wiki/Il_Gattopardo_(film)
(con – tra gli altri – Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli, Giuliano Gemma, Tina Lattanzi), riuscendo a trasformare un romanzo “di destra” in un successo “di sinistra”; un’acuta critica del film si trova nel libro di Sen Rodin/ Filippo Franceschi “Nu, kaj do?”, Exit, Cluj 2010 p. 153-156.
​In Esperanto esistono due traduzioni parziali:
​- nell’antologia, curata da Carlo Minnaja, “Luigi Pirandello kaj aliaj siciliaj aŭtoroj”, FEI 2012, le pagine 308-317 sono dedicate alla magistrale traduzione, di Maria Rosaria (Sara) Spanò, di un brano tratto dalla parte quarta del “Gattopardo”, quella che meglio presenta il punto di vista dell’autore (e più in generale dei siciliani) sulle vicende della Sicilia; il testo italiano si può leggere su
www.belpaese2000.narod.ru/Teca/Nove/Lamped/gtp4.htm
​- la traduzione di un breve pezzo, tratto dalla parte prima, il cui originale in italiano può essere letto su
www.belpaese2000.narod.ru/Teca/Nove/Lamped/gtp1.htm
​apparve su “Heroldo de Esperanto” 1963-11 (luglio 1963), p. 3, ma se ne è perso il ricordo, tanto che essa non viene citata nel documentatissimo volume di Carlo Minnaja “Un secolo di traduzioni letterarie dall’italiano in esperanto”, 1890-1990”
www.yumpu.com/it/document/view/15884583/un-secolo-di-traduzioni-letterarie-in-esperanto-federazione-
​La traduzione, che reca la sigla g.c.f. (suppongo si tratti di Gian Carlo Fighiera)
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​è generalmente di buona qualità. Il problema nasce quando si rende necessario tradurre quello che dice Re Ferdinando II
it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_II_delle_Due_Sicilie
in dialetto napoletano (è noto che alla Corte napoletana dei Borbone si parlava napoletano, come a quella torinese dei Savoia si parlava piemontese o francese:

Vittorio Alfieri


​La “trovata” geniale del traduttore (senza ricorrere al mezzuccio di storpiare le parole del linguaggio standard) sta nel raddoppiare alcune consonanti delle parole: così vvi, vvidas, bbela, labboro, ecc. non sono errori di stampa, ma forme intenzionali in luogo di vi, vidas, bela, laboro, ecc.
​Invece il traduttore inciampa nella interpretazione del dialetto napoletano: non c’è da meravigliarsi, dato che Fighiera è piemontese, e quindi non ha dimestichezza con i dialetti meridionali. Più di una volta, il significato di parole od espressioni napoletane è involontariamente stravolto, tanto che certe battute diventano incomprensibili; l’esempio più vistoso è lo scambio tra “ppeccerelle” (che in napoletano significa piccole, bambine, ragazze) e “pecurelle”, sicché la maliziosa battuta di spirito del Re, riferita nella traduzione alle “pecorelle” invece che alle “bambine”, risulta priva di senso.
​Trascrivo (senza modifiche, a parte la correzione di alcuni evidenti errori di stampa) il brano apparso su “Heroldo”, ed allego:
​- il francobollo italiano del 2007 per il 50° anniversario della morte di Tomasi di Lampedusa, con l’annullo speciale di Santa Margherita di Belice;
​- il francobollo italiano del 2006 per il centenario della nascita di Luchino Visconti, con gli annulli speciali di Milano e di Roma;
​- un particolare della pagina 3 di “Heroldo de Esperanto” 1963-11, che ha pure una breve introduzione al romanzo.


La aŭdienco de Reĝo Ferdinando

La aŭdiencoj! La multaj aŭdiencoj, kiujn la Reĝo Ferdinando bonvolis doni al li, en Caserta, en Capodimonte, en Portici, en Neapolo, ĉie ajn!
Ĉiufoje, flanke de la deĵoranta ĉambelano, kiu, kun la feluko sur la brako kaj la plej lastaj neapolaj vulgaraĵoj sur la lipoj, gvidis lin babilante, oni trairis senfinajn salonojn el arkitekturo mirinda kaj kun meblaro naŭza (ĝuste kiel la burbona monarĥio), oni penetris en dubepurajn ejojn kaj tra malzorgitaj ŝtupetaroj oni alvenis al antaŭĉambro, kie pluraj personoj atendadis: fermitaj mienoj de spionoj, avidaj mienoj de petantoj kun rekomendaj leteroj. La ĉambelano ĉiufoje pardonpetis, preteriris la baron de la gentaĉo kaj akompanis lin al alia antaŭĉambro, tiu ĉi rezervita al la korteganoj; loketo helblua kaj arĝenta el la tempo de Karlo III; post mallonga atendo, servisto gratis la pordon kaj oni estis alkondukata al la Aŭgusta Ĉeesto.
La privata studoĉambro estis malgranda kaj artefarite simpla: sur blankigitaj muroj unu portreto de la Reĝo Francisko I kaj alia de la nuna Reĝino kun mieno acida kaj kolera; super la malgranda kameno, Madono de Andreo del Sarto aspektis mirigita troviĝi meze de koloraj litografiaĵoj de triagradaj sanktuloj kaj neapolaj sanktejoj; sur breto, vaksa Jesuo-infano kun brulanta flameto; kaj, sur modesta skribotablo, paperoj blankaj, paperoj flavaj, paperoj bluaj; la tuta administrado de la Regno alveninta al sia lasta fazo, tiu de la subskribo de Lia Majesteco (D.G.). (1)
​Malantaŭ tiu baro de paperaĉoj, la Reĝo. Jam staranta, por ne montri, ke li leviĝas. La Reĝo kun sia pala grandproporcia vizaĝo inter preskaŭblondaj tempiaj haroj, kun maldelikata armea jako, sub kiu elŝprucis la violkolora strio de la molaj pantalonoj. Ĉiufoje li faris paŝon antaŭen kun la dekstra mano klinita por la mankiso, kiun li poste rifuzos.
​- Nnu, Salina, bbeataj la okkuloj, kiuj vvin vidas. – La neapola akĉento superis en koloro tiun de la ĉambelano.
​- Mi petas Vian Reĝan Moŝton pardoni, ke mi ne surmetis la kortegan uniformon; mi nur traveturas Neapolon; mi ne volis neglekti veni riverenci Vian Personon.
​- Salina, vvi vvolas frenezi; vvi scias, ke en Caserta vi estas en via hejmo. En via hejmo, certe – li ripetis sidiĝante malantaŭ la skribotablo kaj atendante momenton, por ke la gasto sidiĝu. – Kaj la… ŝŝafinetoj, kiel fartas?
​La Princo komprenis, ke ĉi tie li devas enŝovi dusencon spicitan kaj bigotan samtempe.
​- La ŝafinetoj, Via Majesteco? Je mia aĝo kaj kun la sankta ligo de la geedziĝo?
​La buŝo de la Reĝo ridis, dum liaj manoj severe reordigis la paperojn.
​- Mi nneniam permesus al mi, Salina. Mi ddemandis pri vviaj ŝafinoj, pri la princino. Concetta, mmia kara bproffilino, devas esti altkreska nun, vera fraŭlino.
​De la familio oni transiris al la scienco.
​- Vi, Salina, honorigas ne nur vin, sed ankaŭ la tutan Regnon! Belega afero la scienco, kiam ĝi ne pretendas ataki la religion! – Tuj poste, tamen, la masko de la Amiko estis flankenlasita kaj anstataŭigita per tiu de la Severa Suvereno. – Kaj diru, Salina, kion oni diras en Sicilio pri Castelcicala?
​Salina estis aŭdinta pri li nur malbonaĵojn, same de la reĝa kaj de la revolucia partio, sed li ne volis perfidi amikon; li parolis flankteme, restis ĉe ĝeneralaĵoj.
​- Granda sinjoro, glora vundulo, eble iom maljuniĝis pro la zorgoj de la Vicreĝeco.
​La Reĝo malheliĝis: Salina ne volas esti spiono. Sekve, Salina valoras nenion por li. Apoginte la manojn al la skibotablo, li preparis sin por ĉesigi la aŭdiencon.
​- Havvas multe da labboro; la tuta Regno kuŝas sur tiuj ĉi ŝultroj. – Alvenis la momento doni la finan sukereton; la amika mastro reaperis el tirkesto: – Kiam vi revenos al Neapolo, Salina, venu montri Concetta al la Reĝino. Mi scias, ŝi estas tro juna por esti enkondukata en la kortegon, sed nnenio malhelpos al ni privatan kunmanĝon. Mmakaronoj kaj bbela ffromaĝo, kiel oni diras. Ni ssalutas, Salina, estu saĝa!
​Foje, tamen, la aŭdienco finiĝis malbone. La Princo jam estis farinta, malantaŭenpaŝante, la duan kliniĝon, kiam la Reĝo realvokis lin:
– Salina, aŭskultu min bbone. Oni diras al mi, ke vi havas malbonajn kunulojn en Palermo. Tiu via nevo Falconieri… kial li ne serioziĝas?
– Majesteco, Tancredi okupiĝas nur pri virinoj kaj kartludado.
La Reĝo malpacienciĝis:
– Salina, Salina, vvi ffrenezas. La respondeculo estas vi, la anstataŭpatro. Diru al li, ke lli atentu pri sia kapo. Ni ssalutas.
Revenante tra la sama pompe mezkvalita vojo kaj irante subskribi la albumon de la Reĝino, la senkuraĝiĝo eniris en lin. La plebeca amikemo estis por li same peza kiel la ĝendarma grimaco. Feliĉaj liaj amikoj, kiuj volis interpreti la intimecon kiel amikemon kaj la minacon kiel reĝan forton. Li ne povis. Kaj, dum li interŝanĝadis klaĉojn kun la distingaspekta ĉambelano, li demandadis al si, kio postsekvos tiun ĉi monarĥion, kiu jam havas mortosignojn sur la vizaĝo. La Piemontano, la tiel nomata Honestulo (2), kiu tiom da bruo faras en sia malproksima urbeto? Ĉu ne estos la sama afero? Torina dialekto anstataŭ neapola. Nenio alia.
Oni alvenis al la albumo. Li subskribis: Fabrizio Corbera, Princo de Salina.
Aŭ la respubliko de don Peppino Mazzini (3). “Dankon, mi fariĝus sinjoro Corbera”.
La longa trotado revene ne trakviligis lin. Nek lin konsolis la jam akceptita rendevuo kun Cora Danòlo. Ĉar la aferoj tiel statas, kion fari? Alkroĉiĝi al tio, kio ekzistas, sen fari saltojn en mallumon? Do, necesas sekaj pafadoj, kiaj ili eĥis antaŭ nelonge en mizera placo de Palermo; sed, al kio utilas la pafadoj? “Oni konkludas nenion per pum pum! Ĉu ne, Bendicò?” (4)
“Ding, ding, ding”, laŭtis, responde, la sonorilo anoncante la vespermanĝon. “Bendicò” forkuris kun akvumo en la buŝo pro la atendata manĝo. “Piemontano! Vera Piemontano” pensis Salina suprenirante la ŝtuparon.

​(1) Dio Gardu. Esprimo uzata ĉiufoje, iam oni prononcis aŭ skribis la nomon de la Reĝo.
​(2) Vittorio Emanuele II de la dinastio Savoia.
​(3) Giuseppe Mazzini.
​(4) Bendicò estas la familia hundo.
El la itala tradukis G.C.F. (Gian Carlo Fighiera)
Heroldo de Esperanto 1963-11 (julio 1963), p. 3

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