Luoghi

Caracalla

Dal 28 giugno, e fino al 9 agosto 2017, sono in corso alle Terme romane di Caracalla gli spettacoli estivi del Teatro dell’Opera di Roma; quest’anno vengono rappresentate le opere “Carmen” di Georges Bizet, “Tosca” di Giacomo Puccini e “Nabucco” di Giuseppe Verdi. Poiché gli spettatori sono in maggioranza stranieri, le opere hanno sottotitoli (oltre che in italiano) in lingua inglese.
Dal 1937 al 1993, con l’interruzione del periodo bellico, le colossali rovine delle Terme fatte costruire dall’Imperatore Caracalla
it.wikipedia.org/wiki/Terme_di_Caracalla
eo.wikipedia.org/wiki/Banejoj_de_Karakalo
​fecero parte integrante del palcoscenico più grande del mondo (1.500 mq, con un boccascena di 22 metri); famosa la rappresentazione de “Aida” di Verdi, con un apparato scenico unico.

Nel 1993 fu necessario far cessare le rappresentazioni nella forma tradizionale, perché le vibrazioni musicali rischiavano di compromettere la stabilità dei resti archeologici (un analogo provvedimento fu preso per la Basilica di Massenzio, sede di concerti estivi per la sua mirabile acustica); da qualche anno gli spettacoli sono ripresi nell’area delle Terme, ma con una nuova sistemazione, rispettosa della vetustà del complesso monumentale.
Trascrivo un vivace resoconto giornalistico di Edmondo De Amicis (l’autore del libro “Cuore”) sulla visita alle rovine delle Terme di Caracalla prima del loro recupero, con la traduzione in Esperanto di Lina Caporali-Travaglia, dalla “Itala Esperanta Revuo” 1925-6, pagine 93-95; ed allego l’immagine di due francobolli emessi dalle Poste Italiane nel 1959, in preparazione alle Olimpiadi del 1960, che riproducono le rovine delle Terme di Caracalla e della Basilica di Massenzio.


LE TERME DI CARACALLA

​Una grande muraglia nera e una gran porta son tutto quello che mi ricordo della parte esterna.
​Il primo momento in cui ci si trova davanti a qualche cosa di straordinario e di grande non resta mai distinto nella memoria.
​La porta s’apre, entriamo in una specie di vestibolo, e udiamo una voce che dice:
​- Qui v’erano le celle dei signori romani che non volevano bagnarsi in pubblico.
​Non si guarda, si va innanzi altri pochi passi: ci siamo.
​Guardiamo un pezzo in silenzio.
​Siamo in mezzo a un campo cinto da quattro muri altissimi.
​Nel muro dirimpetto a noi v’è una gran porta per cui si vede un altro campo. In fondo a questo una seconda porta, in dirittura della prima, per cui si vede un altro campo ancora, e via via, fino a un muro lontanissimo che sembra chiudere l’edifizio. Alla nostra sinistra una porta come le prime, e altri campi, e altri muri, e altre porte; e tutto deserto e silenzioso come una città abbandonata. Guardiamo in terra: v’è ancora in un angolo un pezzo di pavimento di mosaico uguale e intatto come fatto ieri, in alcuni punti il terreno s’alza, in altri s’abbassa. Vicino al muro v’è un tronco di statua: accanto alla porta alcune nicchie vuote.
​- Qui c’era un grandioso porticato, – dice uno.
​Non ve n’è più traccia, andiamo innanzi. È una solitudine che fa quasi paura. Eccoci nel secondo recinto. Muri, porte e mucchi di terra come nel primo, e deserto, e silenzio. Oh! eccoci nel centro dell’edifizio. Di qui si capisce qualcosa. Vediamo.
​Guardo intorno: che triste e grande spettacolo! Mura altissime, nere, scalcinate, che serpeggiano dalla sommità del suolo, lasciando in qualche punto veder la campagna. Volte alte e leggiere, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro grande curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d’arco prolungati e sottili, che minaccinao rovina. Qua e là enormi pilastri monchi, spezzati a mezzo come da un urto violento, o man mano digradanti in grossezza dal basso all’alto, fino a disegnarsi nel cielo smilzi e snelli come obelischi; porte e finestre sformate, squarciate agli spigoli come dall’auscita forzata di un corpo più grande e dentellate in giro, e dentro buie come bocche di mostri; scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille modi scemati e guasti, come dall’opera di mille mani rabbiose. E via pei muri fori d’ogni forma, e incavature larghe e cupe, di cui non si scerne il fondo, e vestigia interrotte della commessura dei piani, e tracce di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di vasche. E in terra, in mezzo a codeste rovine gigantesche, larghi pezzi di pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali, coperti ancora dell’antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami di colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue, ornati di capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa, sossopra, come crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e rudero, l’erbe e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima trionfatrice, apertosi il varco a traverso pavimenti marmorei, risaluta il cielo e la luce, a lei per tanti secoli e da sì formidabile strato contesi.
Si guarda e si pensa. È tristo, è penoso lo sforzo che si fa per ricostrurre nella mente nostra l’intero edifizio. Quegli avanzi non bastano; sono troppo rotti e sformati. Si segue coll’occhio la curva d’un arco, e si dimentica il contorno della colonna; si va oltre nella direzione d’un andito, e il profilo d’un pilastro ci sfugge; ci sfuggono, a misura che si disegnano, le linee, e colle linee le proporzioni, e colle proporzioni l’effetto, che sarebbe immenso, dell’assieme. Quegli avanzi son come le note interrotte d’una musica lontana, che s’indovina e non si gusta. – Se ci fosse qualcosa di più, – si pensa; – se per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci fosse questo vuoto, se là rimanesse ancora quell’atrio, quante cose se ne potrebbe argomentare e capire! che peccato! – E più e più volte si ricomincia, con mesto desiderio, questa ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i primi gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande curiosità, si guarda; che stizza! la scala è troncata a metà. Si vede l’imboccatura d’un andito: diavolo, dove riesce? Si corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si stanca l’occhio sulle volte e sulle pareti che dovevano essere dipinte, caso mai ci restasse un po’ di colore, qualche linea, una traccia qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie dove si facevano i giuochi, nulla dei portici stupendi che cingevano l’edifizio centrale, nulla delle enormi colonne che sostenevano il piano di mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco che resta, si combina, si congettura, si fantastica. Le sale dal centro si può supporre che cosa fossero. Qui si capisce che si nuotava, là si dovevano vestire, sopra ci dovevano essere le biblioteche, di qui doveva scendere l’acqua. Si seguono attentamente le ondulazioni del terreno, si tien l’occhio fisso nelle nicchie vuote, come se ci fossero ancora le statue, si entra nelle celle dove l’immaginazione è più raccolta, e si guarda a lungo in terra e sulle pareti, che cosa? Nulla, ma si guarda, né ci si può allontanare prima d’aver molto guardato.
E il pensiero s’immerge nel passato. Animo, rifacciamo queste mura, e su di esse i grandi dipinti fantastici, e lungo le pareti i duemila sedili marmorei, e nelle nicchie i capolavori dello scalpello antico, l’Ercole, la Flora colossale, la Venere Callipigia; e lungo i portici e in giro per le sale le colonne di porfido; e lassù, in alto, le celle dorate e inghirlandate; e laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le fontane dai cento zampilli. E duemila Romani in preda all’ebbrezza dei piaceri. L’aria è profumata. Cadono nelle celle le bianche stole delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i calzari purpurei e le treccie brillanti di perle. Dall’acque, infuse di balsami, emergono i volti accesi di voluttà. Sull’orlo delle vasche si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi degli unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche e i canti dei cenacoli; le grida del popolo plaudente ai giuocatori risonano dalle gallerie; e s’odon le voci dei poeti che declamano i versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi dell’edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli candidi, e passano, salgono, scendono, s’incontrano senatori canuti e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si mescono in un vocìo confuso tutte le lingue ed in un diffuso
splendore tutte le ricchezze del mondo. Ed ora muri diroccati, mucchi di sassi, un po’ d’erba selvatica, e silenzio.
Edmondo De Amicis (da “Ricordi del 1870-71”)

LA TERMOJ DE CARACALLA

Granda, nigra murego kaj granda pordo estas tio, kion mi memoras pri l’ ekstera parto.
La unua momento en kiu oni troviĝas antaŭ io neordinara, granda, neniam restas klara en la memoro.
La pordo malfermiĝas, ni eniras en specon de vestiblo dum ni aŭdas voĉon diranta: ĉi tie estis la ĉambretoj por la Romaj sinjoroj, kiuj ne volis sin bani publike.
Oni ne rigardas; oni marŝas aliajn malmultajn paŝojn: ni estas alvenintaj. Oni rigardas iutempe silente: ni estas meze de kampo zonata per kvar tre altaj muroj.
En la antaŭa muro estas granda pordo, tra kiu oni vidas alian kampon kun alia pordo kaj alian kampon kaj antaŭe ankoraŭ, ĝis tre malproksime, muron, kiu ŝajnas fermita konstruaĵo. Maldekstre estas pordo kiel la unuaj, kaj aliaj kampoj, aliaj muroj, aliaj pordoj, kaj ĉio silenta kaj dezerta kiel forlasita urbo.
Mi rigardas teren: oni vidas ankoraŭ en angulo pecon da pavimo el mozaiko sendifekta kiel farita hieraŭ.
Ĉe iuj punktoj la tero suprenleviĝas, ĉe aliaj ĝi malsuprenleviĝas. Antaŭ la muro estas statua busto; apud la pordoj kelkaj niĉoj malplenaj. – Ĉi tie estis grandega portiko – diras iu. – Nun ne estas plu eĉ postsigno: ni iru antaŭen.
Estas soleco, kiu preskaŭ timigas. Jen estas la dua murzono. Muroj, pordoj kaj teramasoj kiel la unua, kaj silento kaj silento. Ho, ni alvenas en la centro de la konstruaĵo.
El ĉi tie oni komprenos ion! Ni rigardas ĉirkaŭe: kia malĝoja kaj granda spektaklo! Tre altaj muroj nigraj, ruiniĝintaj, sulkitaj per larĝaj kaj profundaj fendaĵoj, kiuj, serpentumante el la supro de la tero, vidigas en iu punkto, la kamparon. Altaj kaj malpezaj arkaĵoj similaj je preĝejaj kupoloj, rompitaj meze de sia granda kurbo, finiĝas je pintoj aŭ je arkotrunkoj plilongigitaj kaj maldikaj, kiuj minacas ruinon. Ĉi tie kaj tie grandegaj pilastroj rompitaj en la mezo kiel per perforta kunpuŝigo, aŭ iom post iom maldikiĝantaj de malalte ĝis alte, desegniĝas al ĉielo facilmovaj kiel obeliskoj, pordoj kaj fenestroj malfermitaj, rompitaj ĉe l’anguloj kiel pro perforta foriro de pligranda korpo, ĉirkaŭe dentitaj kaj interne mallumaj kiel monstraj buŝoj; ŝtuparoj kun ŝtupoj eltiritaj, fenditaj, difektitaj, milmaniere senplenigitaj kaj malbonigitaj kiel pro ago de mil koleraj manoj.
Kaj laŭlonge la muroj estas ĉiuformaj truoj; larĝaj kaj malhelaj kavaĵoj kies profundon oni ne vidas, postsignoj interrompitaj per la kunigo de l’etaĝoj kaj signoj de pordoj, niĉoj, kanaloj, pelvoj. Kaj surtere, meze de ĉi tiuj grandegaj ruinoj, larĝaj pecoj da pavimo, tute similaj al ŝtonoj tere disfalintaj, ankoraŭ kovritaj per l’antikva mozaiko; ŝtonegoj el blanka marmoro, ruboj de porfiraj kolonoj, sidiloŝtonoj, statuaj fragmentoj ornamitaj per kapiteloj, ŝtonplatoj kaj ŝtonetoj; ĉio intermiksite, renversite kvazaŭ ĵus elfalinte, kaj inter ŝtonego kaj ŝtonego, inter rubo kaj rubo, herbo kaj sovaĝaj floroj, per kiuj la tero, lasta triumfantino, por esti malferminta transirejon tra la marmoraj pavimoj, resalutas, post jarcentoj, la sunon.
Ni rigardas kaj pensas…. Estas malgaja, estas dolora la peno per kiu ni provas rekonstrui en nia menso la tutan konstruaĵon. Tiuj restaĵoj ne estas sufiĉaj; ili estas tro rompitaj kaj senformigitaj. Oni sekvas per la okuloj la kurbon de arko kaj oni forgesas la konturon de la kolono: oni iras antaŭe direkte de koridoro kaj malaperas la profilo de pilastro, kiel malaperas ĵus desegnitaj linioj, kaj kun la linioj la proporcioj, kaj kun la proporcioj la efekto, kiu estus tute grandega.
Tiuj restaĵoj estas kiel interrompitaj notoj de malproksima muziko pri kiu oni divenas, pli ol oni aŭdas la melodion.
– Se ĉeestus io plia! – oni pensas – kiom da aferoj oni povus argumenti kaj kompreni! Bedaŭrinde!
Kaj plurfoje oni rekomencas, kun malgaja deziro, ĉi tian mensan rekonstruaĵon.
Oni vidas tra iu pordo la unuajn ŝtupojn de ŝtuparoj, kien ili alportos? Oni iras kurioze, oni rigardas: la ŝtuparo estas duone detranĉita. Oni lacigas la okulojn sur l’ arkaĵoj kaj sur la plankaj muroj jam pentrigitaj, por malkaŝi iom da koloro aŭ kia ajn postsignon: nenio!
Nenio de la grandegaj galerioj por ludi, nenio de la mirindaj portikoj, kiuj zonis la centrajn konstruaĵojn, nenio de la grandegaj kolonoj subtenantaj la duan etaĝon.
Nu, oni alliĝas al tio kio restas kaj oni kombinas, oni cerbumas.
Oni imagas la uzon de l’ internaj salonoj; ĉi tie oni manĝis; tie oni sin vestis, supre estis la bibliotekoj, el ĉi tie oni malsupreniris al la akvo.
Oni atente sekvas la terajn ondoliniojn, oni fikse rigardas en la malplenaj niĉoj kvazaŭ se ankoraŭ tie estus la statuoj; oni eniras en la ĉambretojn kie pli atenta estas la imago, kaj longe oni rigardas teren, la murflankojn…. nenio! Sed oni rigardas…. kaj ni ne povas malproksimiĝi el tie, antaŭ ol esti treege rigardintaj….
Kaj la penso trempiĝas en l’estinteco. Kuraĝon: ni refaru ĉi tiujn murojn kaj sur ili la grandajn fantaziajn pentraĵojn, kaj laŭlonge la flankaj muroj la dumil marmorajn sidilojn, kaj en la niĉoj la ĉefverkojn de l’ antikva skuptilo: Herkuleson, la gigantan Flora’n, Venuson, kaj laŭlonge la portikoj kaj ĉirkaŭ la salonoj la porfirajn kolonojn; kaj tie supre la orumitajn kaj girlanditajn ĉambretojn, kaj tie sube, je l’ fino, la ombrumitajn ĝardenojn kaj la fontanojn kun centoj da ŝprucoj.
Kaj dumil Romanoj estas tute kaptitaj de la plezurebriecoj. L’ aero estas parfumata; en la ĉambretoj la blankaj stoloj de la matronoj falas kaj la ĉagrenitaj sklavinoj malligas la purpurajn piedvestaĵojn kaj la harligojn brilantaj je perloj. El la akvoj infuzitaj je balzamoj, distingiĝas la vizaĝoj ardaj je voluptemo. Sur la pelva bordero amasiĝas la servistoj kun arĝentaj strigiloj kaj vazoj de ŝmiraĵoj.
Al la bruo de la falantaj akvoj miksiĝas la muzikoj kaj la kantoj el la manĝoĉambroj; resonas el la galerioj la krioj de l’ popolo aplaŭdanta la ludistojn kaj aŭdiĝas la poetaj voĉoj deklamantaj versojn. Tra la ŝtuparoj, tra la koridoroj de la grandega konstruaĵo resonas gajaj akcentoj: ekflugas blankegaj vualoj kaj pasas, supreniras, sin renkontas, grizharaj senatanoj, hararhavaj sinjorinoj, junuletoj, virgulinoj, sklavoj, kaj ĉiuj langoj miksiĝas en daŭriganta laŭtparolo, ĉiuj riĉajoj de la mondo konfuziĝas en la disa brilego.
Ho! revivi nur unu minuton tian vivon; aŭ vidi ĝin nur momenton per sola rigardo, kiel oni vidas forflugantan aferon!
Sed nun…. disfalintaj muroj, amasoj da ŝtonoj, iom da sovaĝa herbo kaj silento!…
Edmondo De Amicis, trad. Lina Caporali-Travaglia
(“Itala Esperanta Revuo” 1925-6, paĝoj 93-95)

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