Homoj

Italo Calvino

La 19-an de septembro estas la datreveno de la morto (en 1985) de la verkisto kaj ĵurnalisto Italo Calvino (1923-1985),
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naskiĝinta en Santiago de Las Vegas de La Habana (Kubo) el italaj gepatroj (li estis nomita “Italo” ĝuste por substreki lian naciecon); kiam li havis du jarojn li estis portita al Italio al Sanremo en Ligurio, naskiĝurbo de la patro (jen kial estas dediĉitaj al Calvino la paĝoj 144-175 de la antologio de Carlo Minnaja “Eugenio Montale kaj aliaj liguriaj aŭtoroj”, eld. Eva, Venafro 2013, aĉetebla ĉe feilibri@esperanto.it ).
Mi sendas al la prezento farita de tiu volumo (paĝoj 144-145) kaj al tiu de Nicolino Rossi en Literatura Foiro 2016-279 (paĝoj 36-37), krome al la paĝoj de Vikipedio, kun la atentigo ke en tiu en Esperanto (tre malampleksa) tute mankas la mencio de la multaj tradukoj aperintaj en la internacia lingvo (en la dirita libro kaj en Literatura Foiro):
– Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti (Apologo pri honesteco en la lando de koruptitoj), trad. Antonio De Salvo, paĝoj 146-149;
– el La strada di san Giovanni (La strato de sankta Johano), trad. Carlo Minnaja, paĝoj 149-153;
– La camicia dell’uomo contento (La ĉemizo de la kontentulo), trad. Carlo Minnaja, paĝoj 153-155 (ĝi aperis ankaŭ en Literatura Foiro 2004-207);
– La pecora nera (La nigra ŝafo), trad. Antonio De Salvo, paĝoj 155-156;
– Il pattume di Leonia poco a poco invade il mondo (La rubo de Leonurbo iom post iom invadas la mondon), trad. Antonio De Salvo, paĝoj 156-158;
– Senza colori (Sen koloroj), trad. Cristina de’ Giorgi, paĝoj 158-166;
– el Palomar, Lettura di un’onda (Legado de ondo), trad. Pier Vittorio Orlandini, paĝoj 167-171;
– el Palomar, La spada del sole (La glavo de la suno), trad. Pier Vittorio Orkandini, paĝoj 171-175.
​Krome, en Literatura Foiro 2016-279, paĝoj 37-40, estas publikigita la traduko de Nicolino Rossi de la rakonto, ankaŭ ĝi el Palomar, Il fischio del merlo (La fajfo de la merlo); kaj Rossi sciigas, ke li tradukis “plurajn rakontojn el la kolekto Palomar”, kiujn oni esperas vidi baldaŭ publikigitaj.
​Mi transskribas la rakonton Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti (Apologo pri honesteco en la lando de koruptitoj), en la itala kaj en Esperanto, kaj aldonas la kovrilon de la libro de Carlo Minnaja “Eugenio Montale kaj aliaj liguriaj aŭtoroj”.


Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti (1980)
di Italo Calvino

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

APOLOGO PRI HONESTECO EN LA LANDO DE KORUPTITOJ (1980)
de Italo Calvino, trad. Antonio De Salvo
(el: Carlo Minnaja, “Eugenio Montale kaj aliaj liguriaj aŭtoroj”, EVA 2013, p. 146-149)

Estis iam iu lando, kiu sin regis per nelico. Ne ĉar mankis leĝoj, aŭ ĉar la politika sistemo ne baziĝis sur principoj pri kiuj ĉiuj, plimalpli, laŭdire konsentis. Sed ĉi tiu sistemo, aranĝita laŭ granda nombro da povocentroj, bezonis senlimajn financajn rimedojn (ĝi ilin bezonis, ĉar kiam oni alkutimiĝis disponi je multe da mono oni ne plu kapablas koncepti la vivon alie), kaj ĉi tiujn rimedojn oni povis akiri nur kontraŭleĝe, tio estas, postulante ilin de tiuj, kiuj ilin havis, kontraŭ nelicaj komplezoj. Nome, tiuj kiuj povis doni monon kontraŭ komplezoj, ĝenerale antaŭe amasigis tiun monon pere de pli frue faritaj komplezoj; de tio rezultis ekonomia sistemo iel cirkla kaj ne manka je siaspeca harmonio.
Dum la sinfinancado tra kontraŭleĝa vojo, ĉiu povocentro ne estis eĉ tuŝetita de kulposento, ĉar laŭ propra interna moralo ĉio, farata en la intereso de la grupo estas lica; eĉ pli, laŭdinda; ĉar ĉiu grupo identigis sian povon kun la komuna bono; la formala kontraŭleĝeco do ne ekskludis iun superan esencan laŭleĝecon. Estas vere, ke en ĉiu kontraŭleĝa transakcio favore al iu kolektivo laŭ kutimo iu porcio restu en la manoj de unuopuloj, kiel justa rekompenco de la nepre necesaj plenumoj de akiro kaj perado: do la kontraŭleĝaĵo, kiu laŭ la interna moralo de la grupo licis, kunportis kun si ian ereton da io, kio ankaŭ laŭ tiu moralo ne estis konsentita. Sed, se ĝuste rigardi, la ulo enpoŝiginta sian individuan ŝmirmonon super la kolektiva ŝmirmono estis certa, ke li agigis sian individuan profiton favore al la kolektiva profito, nome, li povis malhipokrite konvinkiĝi ke la propra konduto estas ne nur lica, sed eĉ laŭdinda.
La lando havis ankaŭ multelspezigan oficialan budĝeton nutratan de la impostoj super ĉiu ajn lica agado, kaj ĝi laŭleĝe financadis ĉiujn, kiuj lice aŭ nelice sukcesis financigi sin. Ĉar en tiu lando neniu emis, ni ne diru bankroti, sed eĉ malgajni el propra mono (kaj ne estas konjekteble, sur kiu bazo oni povus postuli ke iu malgajnu), la publikaj financoj utilis por laŭleĝe kompensi, en la nomo de la komuna bono, la deficitojn de tiuj agadoj plenumitaj, ĉiam en la nomo de la komuna bono, per kontraŭleĝa vojo. La enkasigo de la impostoj, kiu en aliaj epokoj kaj civilizoj povis strebi sin apogi sur la civitana sento, ĉi tie revenis al sia pura substanco de perforta faro (samkiel en iuj lokoj al la enkasigo fare de la Ŝtato aldoniĝis tiu de aliaj gangsteraj aŭ mafiaj organizoj), perforta faro al kiu la impostopagantoj submetiĝis por eviti pli grandajn malfeliĉaĵojn, kvankam ili spertis, anstataŭ la senpeziĝo de la konscienco en bona ordo, la malagrablan senton de pasiva kompliceco kun la malbona mastrumado de la publikaj aferoj kaj kun la privilegio de la kontraŭleĝaj agadoj, ordinare liberaj je ĉiu imposto.
De tempo al tempo, kiam tion oni tute ne atendis, iu tribunalo decidis apliki la leĝojn, kaŭzante malgrandajn tertremojn ĉe iu povocentro kaj ankaŭ arestojn de homoj kiuj, ĝis tiam, prave supozis, ke ili estas nepuneblaj. En tiuj kazoj la reganta sento, anstataŭ kontento pro la revanĉo de la justico, estis suspekto, ke temas pri kvitigo de la kontoj de iu povocentro kontraŭ alia povocentro. Tial estis malfacile decidi, ĉu la leĝoj jam estas uzeblaj nur kiel taktikaj kaj strategiaj armiloj en la internaj bataloj inter kontraŭleĝaj interesoj, aŭ ĉu la tribunaloj, por pravigi sian instituciajn taskojn, devas kreditigi la ideon, ke ankaŭ ili estas centroj de povo kaj de kontraŭleĝaj interesoj samkiel ĉiuj ceteraj.
Nature tia situacio estis favora ankaŭ al la tradiciaj krimaj organizoj, kiuj per trudkaptoj de personoj kaj prirabadoj de bankoj (kaj multaj aliaj pli modestaj agadoj, ĝis la ŝiroŝtelo per skotero) enŝoviĝis kiel neantaŭvidebla elemento en la karuselon de la miliardoj (*), devojigante ilian fluon al subteraj vojoj, sendube reemerĝonte, pli aŭ malpli frue, en mil neatenditaj formoj de laŭleĝa aŭ kontraŭleĝa financo.
Opozicie al la sistemo gajnadis terenon la teroristaj organizoj, kiuj, utiligante tiujn samajn metodojn de financado de la eksterleĝa tradicio, kaj per bone dozata poguta ripetado de murdoj dispartigitaj inter ĉiuj kategorioj de civitanoj, elstaraj kaj senfamaj, sin proponis kiel ununuran tutecan alternativon al la sistemo. Sed ilia vera efiko sur la sistemon estis ĝia plifortigo, tiom ke ĝi fariĝis la nemalhavebla apogilo, kaj plifirmiĝis la konvinkiĝo ke ĝi estas la sistemo kiel eble plej bona, kaj ke oni nenion ŝanĝu.
Tiel ĉiaj nelicaĵoj, de la plej sinkaŝemaj al la plej krudaj, kuniĝadis en sistemon kun propraj stabileco, kompakteco kaj kohero, kaj en kiu multegaj homoj povis trovi sian praktikan avantaĝon ne perdante la moralan avantaĝon sin senti kun senmakula konscienco. Do, la loĝantoj de tiu lando estus povintaj sin diri unuanime feliĉaj, se ne estus iu kategorio da civitanoj, tamen multenombraj, al kiuj oni ne kapablis atribui ian rolon: la honestuloj.
Tiuj estis honestaj ne pro iu speciala kialo (ili ne povis referenci al grandaj principoj, nek patriotaj nek sociaj nek religiaj, kiuj estis elmodiĝintaj), ili estis honestaj pro mensa kutimo, karaktera memkondiĉado, nerva obsedo. Entute, ili ne havis kontraŭrimedon se ili estis tiaj, se la aferoj por ili gravaj ne estis rekte takseblaj per mono, se ilia kapo ĉiam funkciadis surbaze de tiuj malnovaj mekanismoj ligantaj gajnon kun laboro, estimon kun merito, propran kontenton kun kontento de aliaj. En tiu lando de homoj, kiuj ĉiam sentis sin kun konscienco senmakula, ili estis la ununuraj kiuj ĉiam faris al si skrupulojn, kiuj demandis de si ĉiumomente, kion ili faru. Ili sciis, ke prediki pri moroj, ekindigni, instigi al virto, estas aferoj, kiuj tro facile trovas ĉies aprobon, bonfide aŭ malbonfide. La povon ili ne taksis sufiĉe interesa por ĝin revi por si (almenaŭ, tiu povo kiu interesis al aliaj); ili ne iluziis sin mem, ke en aliaj landoj ne estas la samaj malvirtoj, eble kaŝataj; je pli bona socio ili ne esperis, ĉar ili sciis, ke la plimalbono ĉiam estas pli probabla.
Ĉu ili rezigne estingiĝu? Ne, ilia konsolo estis la penso, ke samkiel rande de ĉiu socio dum jarmiloj pludaŭris iu missocio el friponoj, poŝoŝtelistoj, trompistoj, mistifikuloj, missocio neniam pretendanta iĝi mem la socio, sed nur postvivi en la faldoj de la socio reganta kaj aserti sian vivmanieron spite al la firmiĝintaj principoj, kaj tial donis pri si (almenaŭ se vidate ne tro de proksime) bildon de libero kaj vivorajto, tiel la kontraŭsocio de la honestuloj eble sukcesos persisti ankoraŭ dum jarcentoj, rande de la ĝenerala moro, sen alia pretendo ol pluvivi laŭ sia propra diverseco, senti sin malsimila de ĉio cetera, tiel ke eble ĝi finfine signifos ion esencan por ĉiuj, kvazaŭ imago de io, kion vortoj ne plu kapablas esprimi, de io ankoraŭ ne dirita, kaj kies econ ni ankoraŭ ne konas.

(*) En la epoko de la rakonto de Calvino (1980 la monunuo en Italio estis la liro; unu miliardo da liroj egalis al iom malpli ol duonmiliono da nunaj eŭroj.

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