Personaggi

Ludwig van Beethoven

Oggi rendo omaggio, al tempo stesso, al compositore e pianista tedesco Ludwig van Beethoven (1770-1827) e allo scrittore e poeta napoletano Salvatore Di Giacomo (1860-1934).
Ho già parlato di entrambi: di Beethoven, il 26 marzo 2018 (nell’anniversario della morte),

Ludwig van Beethoven


e Di Giacomo, da ultimo, il 12 marzo 2019, nell’anniversario della nascita.

Salvatore Di Giacomo


Trascrivo (in italiano, e nella traduzione in Esperanto di Michele Arabeno), la novella “L’amico Richter”, in cui si parla di Beethoven.
Allego l’immagine del monumento a Beethoven nel Conservatorio napoletano di San Pietro a Majella, opera dello scultore calabrese Francesco Jerace (1853-1937); la foto è di Daniela Milasi.


L’AMICO RICHTER

Ecco, amici miei, in che modo conobbi il professore Otto Richter.
*
Il Rione Principe Amedeo, voi sapete, così vicino per limiti al Corso Vittorio Emmanuele, si trova ad esserne, per aspetto, assai lontano. Il Corso è ancora campagnuolo sotto la collina verde; il Rione è elegante; il Corso è tutto polveroso per la via larga e assolata; il Rione è severamente pulito. Qui un palazzo Grifeo, che ha un’aria d’antico e una salda costruzione di pietra grigia e nuda. Qui finestre archiacute che riflettono, a sera, nelle terse vetrate il gran chiarore della luna, la quale, di rimpetto, s’affaccia sul mare e vi bagna la sua pallida immagine. In uno studio d’incisione, sotto il palazzo grigio, si fonde e si cesella in silenzio. Un interno pieno di penombre; l’artista che passa e guarda, risale con la fantasia al vecchio tempo fiorentino. Se qui l’ambiente non fosse in gran parte lieto dell’orizzonte glauco e d’un profumo d’erbe selvatiche, e se non parlassero dell’amore della campagna i sanguigni rosolacci erti, e se non chiacchierassero, migrando a non lontane nidiate, gli uccellini freddolosi, la bottega dell’incisore parrebbe antica, quando intorno le capitassero muri grigi e stemmi onorati da vanti di toghe o di corazze.
In questo tempo nostro, il rione è semplicemente felice della sua nettezza e del posto. A un certo punto il parapetto della via è rotto dai primi gradini d’una scaletta malconcia. Per questa si scende in un solitario vicolo, e si esce così, passando sotto un potente arco a Chiaia, nel quartiere elegante. Dalla pace al romore, dalla tranquillità delle cose e delle persone a un movimento che vi rimette dal sogno nella realtà.
In certe ore, in certi momenti, il vicoletto vi parla di tante strane e misteriose cose. Fu in questo vicoletto che conobbi il professore Otto Richter.
*
Era una lieta mattina primaverile. Vi giuro, amici miei, così non dico pel convenzionalismo che infiora quasi tutti i racconti dolci di tenerezze meteorologiche. È la verità, la conoscenza accadde in aprile. A ogni modo, Otto Richter lo conobbi così.
Io scendevo lentamente per quella tale scaletta; egli se ne stava laggiù nel vicolo, all’ombra, piantata la punta di un ombrello nel terriccio, le mani sul manico di madreperla a gruccia. Con le spalle al muro, gli occhi a terra, il vecchietto m’aveva l’aria di star meditando. Ora siccome in questa vita i pensosi sono, per lo più, i disgraziati, io che lo aveva visto dall’alto della scala piantato lì a quel modo, e me lo ritrovavo nella stessa posizione appena dall’ultimo gradino mettevo piede nel vicoletto, dissi tra me e me:
– Ecco uno che certamente crogiuola i guai suoi.
Il vicolo era pieno di buon sole e di silenzio. Improvvisamente fu pieno di musica. Come mai? – pensavo, tornando indietro, colpito deliziosamente da una melodia che si spandeva. Il vecchio s’era mosso; passava al sole dall’ombra, avvicinandosi a una delle tre finestre basse che si aprivano sul vicolo dal muro di faccia a noi. Alle finestre ci si arrivava quasi con la testa. Le vetrate erano spalancate e la musica passava. Ma la facevano misteriosa certe bianche tendine, occupanti di dentro tutto il vano e pur di dentro fermate sulle assi d’un telaio.
Accostandomi alle finestre, m’avvicinavo pur al vecchietto, e procuravo di non far romore; era così assorto poverino! L’ombrella era passata sotto l’ascella, le mani strette premevano l’ultimo bottone del panciotto ch’era in cima carezzato dalla barba rossiccia del solitario uditore. A volte, mentre la melodia saliva con più sonoro ritmo, le mani si staccavano dal panciotto, e una, l’indice teso, misurava il tempo. Si afferrava l’altra, nervosamente, al margine del soprabito, come se volesse tirar giù il panno stinto.
Finita la musica il vecchietto levò il capo; sorrideva. Me gli trovai faccia o faccia; egli seguitava a sorridere, seguitava ad armeggiar con la mano, mormorando l’ultima frase musicale, solenne.
Mi feci animo e gli chiesi:
– Scusi, chi c’è qui dentro?
Lui fece un passo innanti, rimise in movimento l’ombrella e venne a me con una chiara felicità negli occhietti azzurri.
Rispose:
– Beethoven.
Col braccio levato misurò ancora quattro o cinque battute e canticchiò un’altra volta le note.
– Molto grande, – soggiunse con le labbra allungate in una smorfia d’ammirazione – molto grande! Questa sinfonia monumento. Oh!… Piace a voi, signor?
Dio mio! Una così deliziosa cosa! A chi non piace la musica di Beethoven, amici miei? Gli è che non sapevo persuadermi come lì dentro ci fosse proprio lui. Egli certamente è presente ancora all’esecuzione della sua musica, il suo spirito aleggia intorno. E la musica trema con divino ed infinito sospiro di sentimento, la melodia culla l’anima. Io avevo ben riconosciuta la Pastorale. Ricordate, voi, amici?
Ah! perché la musica non si può scrivere e leggere come la parola!…
– Lei dice che la musica è di Beethoven – feci, ridendo – e sta bene. Ma com’è che Beethoven si trova lì dentro? È risuscitato?
Lui rispose lentamente, tutto serio:
– Beethoven morto assai tempo. Qui Società Quartetto. Concerto.
– Forestiere lei?
– Allemand, di Germania. Tetesco.
– E vive qui, a Napoli?
Disse con gli occhi di sì. E poi accennò pure che tacessi e si riavvicinò alle finestre. Ricominciava la musica. Chi ora?
– Psst – fece lui – Bocherino.
Mise l’indice sulle labbra e socchiuse gli occhi, come rapito.
Che finezza, che languore, amici miei! La conoscete voi questa Siciliana del gentile minuettista? Come sorrideva il vecchietto in tutta la durata dei sospiri del settecento, agli scherzi dei violini, rievocanti tutto un passato dolce, sparso di polvere d’iris e odoroso di buon cioccolatte. Cari amici, in questo vicoletto al Rione si sogna; e che buon sole, che buona musica, amici miei!
*
E vi tornai. Ancora il professore Otto Richter non mi aveva tutto narrato di sé. La sua piccola figura da racconto d’Hoffmannn o d’Erckmann-Chatrian, la sua placida figura tedesca serbava qualcosa di misterioso ch’io cercavo invano di scrutare e su cui arzigogolavo senza raccapezzarmici.
Seppi soltanto questo da lui, alle prime confidenze, ch’egli era venuto di Germania in Italia a piedi. Amici, capite? A piedi. Ne rimasi inorridito; io che adoro le vetture, la ferrovia, le tramvie, tutto che è mezzo di trasporto!
Il mio sguardo scese subito alle scarpe del buon uomo, due scarpe punto eleganti, dal tomaio piatto, basso, enorme, dalla punta quadrata, dalle suola doppie tre dita. Vere scarpe nordiche. Egli posava su quel piedestallo e sorrideva, contentissimo. Aveva, parlando, un certo ammiccar d’occhi malizioso, pel quale gli si arricciavano le gote. Tutta la faccia diventava una ruga sola. Parlava a bassa voce.
E poi seppi, pure da lui, ch’egli era a Napoli da tempo, che abitava nel torrione di S. Martino, che in tutta la santa giornata girava nella città dando lezioni di lingua tedesca.
– Voi non conoscete? – fece lui.
– No – risposi, mortificato – Ma amerei imparare la vostra lingua.
– Desiderate lezione? – disse lui, sorridendo. – Parleremo di questo.
Poi non ne parlammo più. Era un vecchietto pieno di delicatezze.
Continuavano le prove della Società del Quartetto. Una mattina il professore Otto Richter se ne venne nel vicoletto con tra mani un libriccino di elegante edizione tedesca.
– E questo?
– Questo? Trattato veleni.
Veleni? Che faccia feci? Ma il vecchietto si affrettò a soggiungere, battendo in petto la mano aperta:
Io anche un poco medico.
Un po’ medico, un poco poeta, un poco pittore – egli era un po’ di tutto. Soprattutto un musicomane. La mia ammirazione cresceva di domenica in domenica, come i concerti del Quartetto si seguivano e ci teneva insieme la comodità del vicoletto. Bisognava vedere il mio amico Otto Richter mentre romoreggiava, di dentro, la Cavalcata delle Walküre. Quel buon Richter! Coi pugni stretti, gli occhi lampeggianti, le gambe allargate, l’ombrella brandita come la frusta d’una delle amazzoni wagneriane, facendo: Pa pa ta pa! Pa pa ta pa! Papatapa! Zin!
*
* *
Passò un mese, un felice mese di pruove e di concerti. Non mancammo mai. Sui muriccioli del vicoletto spuntavano fiorellini gialli e tutte le creste n’erano vestite. Una striscia d’ombra sotto quei muriccioli, e in mezzo al vicolo un accampamento di sole. Saliva la musica fino al Rione, chiamando i passanti, invitandoli alla platea solitaria di questo teatro improvvisato. E pei gradini diruti scendevano subitamente figurine femminili, allegri cavalierini in galanterie. Era un romore di stivalini saltellanti che faceva voltare il mio amico Richter. Egli pareva un vecchio passero solitario turbato da una folla accorrente di uccellini chiassoni. Si rincantucciava e non si moveva più. Qualche piccola signorina lo indicava, sorridendo.
Certo il mio amico Richter impressionava. Era una figura originale, di quelle che i giornali illustrati tedeschi mettono in una novella semplice e buona, vivificata dalla matita di un artista di spirito. Parecchie volte lo incontravo in quei paraggi, con una valigetta appesa a una mano, l’eterna ombrella nell’altra. La valigetta s’empiva di frutta: di erbaggi di latticini, d’un po’ di tutto. Il mio amico Richter entrava frettolosamente nella bottega d’un pastaio, faceva di cappello con quella cortesia ch’è tutta tedesca e chiedeva due chilogrammi di vermicelli. E in un’ora egli si era provvisto di tutto il mangiabile e il cucinabile. Così tornava a S. Martino e di lì scendeva per andare a udir la musica in Villa Nazionale o in qualche altro posto dove musica si facesse. Era la sua grande passione.
Una mattina lo vidi che seguiva le esequie di un capitano suicida. Era accanto alla banda musicale, tutto pensoso, l’eterna ombrella sotto il braccio. Lo vedevo poi qua a là per le vie, per le stradicciuole di Napoli, frettoloso, parlante a se stesso. Forse si recava alle sue lezioni di tedesco. Poi non lo vidi più.
Scompaiono tante persone ogni giorno in questa Napoli, e tante ne compaiono di nuove!
*
* *
Una sera, era qui la regina, si dava in onore di lei un concerto al Quartetto. Il vicoletto era pieno. Eravamo in parecchi amici. nella più grande aspettazione per un programma che prometteva Schumman, Wagner, Boccherini, Beethoven. La sala era certamente affollata, ma qui, nel vicoletto, al fresco, come si stava meglio, e senza pagare il biglietto!
Per le aperte finestre uscivano il susurro degli intervenuti, lo strepito delle seggiole smosse, un fruscio d’abiti serici. Di tanto in tanto un accordo di violino, un suono rauco di tromba, una voce che chiamava.
Il vicoletto fu, a un momento, tutto illuminato dalla luna che si liberava dall’impiccio di certe nuvole impromettenti, e campeggiava serenamente in cielo. Noi altri si chiacchierava, aspettando. Accosto a me era seduto un uomo occhialuto, dalla piccola e incolta barba nera. Un forestiero. Non so come io gli abbia rivolta la parola, ne so più perché. Certo è che il mio vicino, tra una domanda e una risposta, brevi sempre, mi disse che egli era tedesco, ch’era professore di lingua tedesca, e che avrebbe desiderato di esser conosciuto. Ma lo disse, poverino, con una cert’aria! Pareva mortificato. Tedesco, professore? Certo conosceva il mio amico Otto Richter.
– Otto Richter – borbottò, cercando nella memoria.
Poi fece:
– Ah! Richter!
– Dunque?
– Morto. Otto Richter? Professore? Morto.
Una cosa molto semplice per questo signore meditabondo. Oh! povero Richter! Ma come?
Il mio vicino pensò ancora. Ecco, era morto così – e si batteva in fronte – male di cervello. Tre giorni, non più. Poi morto.
Dopo un momento cavò da un enorme portafogli la sua carta e me la porse. C’era su scritto, a mano: Corrado Weber, professore di lingua tedesca.
– Chieggo scusa – balbettava il pover’uomo – io solo a Napoli, solo, solo. Così si vive, signor, lavorando. Richter mio buon amico. Poveretto.
Improvvisamente un fragore di battimani giunse a noi dalla sala; subito dopo l’orchestra intuonò la marcia reale. La regina entrava. Passarono quattro minuti; nessuno fiatava nel vicolo. Io pensavo al mio vecchio amico Richter, al mio povero vecchietto musicomane.
– E quando è morto?
– Psst! – fece Weber – Chieggo scusa, signor. Dopo.
Cominciava la musica. Si levò in piedi, si scappellò e si mise ad ascoltare con religiosa attenzione.
Salvatore Di Giacomo
°°°°°
AMIKO RICHTER

Jen, amikoj miaj, kiel mi ekkonis profesoron Otto Richter.
La kvartalo Princo Amedeo, vi scias, tiel proksima laŭlime al la korso Viktoro Emanuelo, sin trovas de ĝi, laŭ aspekto, tre malproksime. La korso ankoraŭ estas kampara, sub la verda monteto: la kvartalo estas eleganta, la korso estas polvoplena pro strato larĝa kaj sunfrapata; la kvartalo estas severe pura. Ĉi tie estas palaco Grifeo, havanta antikvan aspekton kaj solidan konstruon el griza kaj nuda ŝtono. Ĉi tie estas fenestroj ark-pintaj, reflektantaj vespere en la viŝitaj vitraĵoj la grandan helon de la luno, kiu el la kontraŭa flanko surrigardas la maron kaj en ĝi banas sian palan bildon. En studo gravura, sub la griza palaco, la tuto kunfandiĝas kaj ĉiziĝas silente. Interno plena de duonombroj: la artisto pasanta kaj rigadanta revenas en sia fantazio al la malnova Florenca tempo. Se ĉi tie la medio ne estas grandparte gaja pro lazurverda horizonto kaj pro parfumo de sovaĝaj herboj, kaj se ne parolus pro amo se ne pepadus migrante al ne malproksimaj nestoj la birdetoj frostetantaj, la butiko de la ĉizisto ŝajnus al la kamparo la sangokoloraj starantaj papavoj, kaj antikva, kiam ĉirkaŭe aperas grizaj muroj kaj ŝildoj honorataj per vantoj de roboj kaj de kirasoj.
Dum nia tempo, la kvartalo estas simple feliĉa pro sia pureco kaj lokiĝo. La balustradon de la strato rompas la unuaj ŝtupoj de ŝtuparo nezorgita.
Per ĝi oni malsuprenvenas en senhoman strateton, kaj tiel oni aliras, pasante sub potenca arko, al kiaja, en la eleganta kvartalo. De paco al bruado, de la trankvilo de aĵoj kaj personoj al ia moviĝo, kiu vin remetas el revo al realo. En kelkaj horoj, en kelkaj momentoj, la strateto al vi parolas pri multaj strangaj kaj misteraj aferoj. En ĉi tiu strateto mi ekkonis prof. Otto Richter.
*
Estis gaja printempa mateno. Mi ĵuras al vi, amikoj, tion mi ne diras pro konvenismo, kiu trafloras preskaŭ ĉiujn rakontojn per meteorologiaj mildaĵoj. Estas vero, la interkonatiĝo okazis en Aprilo. Otto Richter mi ekkonis jene.
Malrapide mi malsuprenvenis tiun diritan ŝtuparon; li staris tie en la strateto, ĉe ombro,kun ombrelo kies pinto estis plantita en la tero, kun la manoj sur ĝia transversa tenilo el perlamoto. Kun ŝultroj al muro, okuloj al tero, la maljunuleto al mi aspektis pripensema. Nu, ĉar en ĉi tiu vivo, la pensemuloj estas, laŭ plimulto, malfeliĉuloj, mi, kiu lin vidis el la alto de la ŝtuparo, tiel stari tie, kaj lin retrovis en la sama pozicio, kiam de la lasta ŝtupo mi metis la piedojn en la strateton, mi diris al mi:
Jen homo, kiu certe meditas pri siaj veoj. La strateto estis plena de suno kaj silento. Subite ĝi estis plena de muziko. Kial do? mi pensis, revenante, reve frapita de melodio disfluganta. La maljunuleto jam moviĝis; pasis de ombro al suno, sin proksimigante al unu el tri malaltaj fenestroj, rigadantaj al la strateto el muro kontraŭ ni. La fenestroj preskaŭ estis larĝe malfermitaj kaj la muziko pasis. Sed ĝin igis mistera iaj blankaj kurtenoj kadrofiksitaj, okupantaj interne la tutan interspacon.
Proksimiĝinta al la fenestro mi proksimiĝis ankaŭ al la maljunuleto, klopodante ne fari bruon: li estis tiel atentega, kompatindulo! La ombrelo estis sub la akselo, la manoj fermitaj premis la lastan butonon de la veŝto, kiun supre karesis la ruĝeta barbo de l’ solena aŭdanto. Kelkfoje, kiam la melodio leviĝis kun pli sonora ritmo, la manoj delasis la veŝton kaj unu montrofingro rekta batadis la takton la alia kaptadis nervoze la baskojn de l’ surtuto, kvazaŭ li volus malsuprentiri la senkoloriĝintan ŝtofon. Kiam la muziko finiĝis, la maljunuleto levis la kapon, daŭre ridetis, daŭre svingadis la manon, murmurante la lastan muzikan frazon, solene.
Preninte kuraĝon, mi lin demandis:
Pardonu, kiu sidas tie?
Li antaŭenpaŝis, removis la ombrelon, kaj venis al mi kun hela feliĉo en la lazuraj okuletoj. Li respondis: “Beethoven”. Per levita brako li mezuris ankoraŭ kvar-kvin taktojn kaj kantetis ree la notojn.
“Tre granda!” li aldonis kun lipoj longigitaj pro admira grimaco. “Giganta! Ĉi tiu simfonio, monumento! Ho! Ĉu ĝi plaĉas al vi, Sinjoro!”
Dio mia! Tiel ĉarma afero! Al kiu ne plaĉas la muziko de Beethoven, amikoj miaj?! Nur mi ne povis kompreni, kiel estis tie vere li.
Ja mi bone rekonis la Pastoralon. Ĉu vi memoras, amikoj?
Ah! kial la muzikon oni ne povas skribi kaj legi kiel la parolon!
“Vi diras, ke la muziko estas de Beethoven” mi parolis ekridante “nu bone. Sed kial Beethoven troviĝas tie interne? Ĉu li reviviĝis?”
La [tiel] respondis malrapide, tre serioze:
“Beethoven mortinta jam longe. Ĉi tie Societo Kvarteto Koncerto.”
“Ĉu fremda estas via Moŝto?”
“Alemando, de Germanio, tetesko.”
“Ĉu vi vivas ĉi tie en Napolo?”
Per la okuloj li jesis. Poste li mansignis ankaŭ, ke mi silentu, kaj alproksimiĝis al la fenestro. Oni rekomencis la muzikon.
“Psst.” Li diris “Boccherini”. Li metis la montrofingron sur la lipojn kaj duonfermis la okulojn, ravita. Kia mildeco, kiaj graciaĵoj, amikoj miaj! Ĉu vi konas tiun Siciliana?
*
Mi reiris tien: Ankoraŭ Prof. Otto Richter ne parolis al mi definitive pri si.
Lia malgranda figuro, laŭ rakonto de Hoffman aŭ de Erckmann Chatrian, lia kvieta germana figuro entenis ion misteran, kiun mi vane klopodis esplori kaj super kio mi cerbumis sensukcese.
Nur tion mi eksciis de li, ĉe la unuaj konfidoj, ke li venis de Germanio al Italio, piede. Ĉu vi komprenas? Piede! Mi restis terurita, mi ameganta la veturilojn, la fervojon, la tramojn, ĉion, kio estas transportrimedo!
Mia rigardo tuj direktiĝis al la ŝuoj de l’ bona homo, du ŝuoj tute ne elegantaj, el surparto plata, malalta, larĝega, el pinto kvadrata, el plandoj duoblaj, tri fingrojn dikaj, vere nordaj ŝuoj. Li staris sur tiu piedestalo kaj ridetis kontentege. Li havis, parolante, ian malican okulumon, per kiu taŭziĝis liaj vangoj. La tuta vizaĝo iĝis sola sulko. Li paroladis mallaŭte.
Poste mi eksciis, same de li, ke jam de longe li vivas en Napolo, ke li loĝis en la turego S. Marteno, ke dum la tuta plena tago li vagadas tra la urbo donante instruon pri germana lingvo.
“Ĉu vi ĝin konas?” li diris.
“Ne” mi respondis, duonĉagrene. “Sed mi dezirus lerni”.
“Ĉu vi deziras lecionon?” li diris ridetante.
“Ni parolos pri tio.”
Poste pri tio ni plu ne parolis. Li estis maljunulo plena de delikataĵoj.
Daŭradis la provoj de la Societo de l’ kvarteto.
Iun matenon Prof. Otto Richter venis en la strateton kun libreto de elegana germana eldono en la mano.
“Ĉi tio?”
“Ĉi tio? Traktato venenoj.”
“Venenoj?” Sed la maljunulo rapide aldonis frapante sian bruston per la mano.
“Mi ankaŭ iom kuracisto”.
Iom kuracisto, iom pentristo, li estis iom ĉio. Super ĉio, muzikmaniulo.
Mia admiro kreskadis de dimanĉo al dimanĉo; same sekvadis la koncertoj de l’ kvarteto, kaj nin kuntenis la komforteco de la strato. Oni devus vidi mian amikon Otto Richter, dum interne bruadis la kavalkado de la Valkiroj! Tiu bona Richter! Kun fermitaj pugnoj, okuloj lampantaj, gamboj larĝigitaj, kun ombrelo svingata kiel vipo de iu Vagnera amazono, kaj dirante: Pa, pa, ta, pa! Papatapa! Cin!
*
Pasis monato, feliĉa monato de provoj kaj koncertoj. Ni neniam tie mankis. Sur la muretoj de l’ strateto aperis flavaj floretoj ornamantaj ties suprojn. Strio da ombro sub tiuj muretoj kaj, en la mezo de l’ strateto, kampo da suno. Aŭdiĝis la muziko ĝis la kvartalo, vokante la pasantojn, ilin invitante al la solena partero de ĉi tiu okaza teatro, kaj de la ŝtupoj ruiniĝintaj venis subite virinfiguretoj, gajaj kavaliretoj. Estis bruo de saltetantaj ŝuetoj; ili igis turniĝi mian amikon Richter. Li aspektis maljuna solena pasero, ĝenata de alkuranta amaso da bruemaj birdetoj. Li kaŭris en angulo kaj ne plu moviĝis. Malgranda fraŭlino lin montris al la aliaj ridetante.
Certe mia amiko Richter interesis.
Li estis originala figuro, simila al tiuj, kiujn la germanaj ilustritaj gazetoj metas en simpla kaj bona novelo, vivigitajn per krajono de sprita artisto. Multfoje mi lin renkontis en la ĉirkaŭaĵoj, kun valizeto en unu mano, la ĉiama ombrelo en la alia. La valizeto pleniĝis de fruktoj, herbaĵoj, laktaĵoj, de iom el ĉio. Mia amiko Richter eniradis rapideme en butikon de pastio, ĉapelsalutante kun afableco tute germana kaj petadis pri du kilogramoj de vermiĉeloj, kaj horo sufiĉis por liveri al si ĉion manĝeblan kaj kuireblan. Tiel li revenadis al S. Marteno kaj de tie li ĉiam malsuprenvenis por aŭdi muzikon en la Nacia ĝardeno aŭ ie ajn, kie muzikon oni ludis. Tio estis lia granda pasio.
Iun matenon mi vidis lin sekvi funebron de kapitano sinmortiginta. Li staris apud la urba muzikistaro, pensoplena, kun la eterna ombrelo subbrake. Mi lin revidis poste tie kaj tie en la stratoj, stratetoj de Napolo, rapidema, al si parolanta. Eble li iris al siaj lecionoj pri germana lingvo. Poste mi lin plu ne vidis.
Malaperas tiom da personoj, ĉiutage, en ĉi tiu Napolo, kaj tiom da novaj aperas!
*
Iun vesperon, estis ĉi tie la Reĝino. Oni ŝin honoris per koncerto de kvarteto. La strateto estis plena. Ni estis tie pluraj amikoj, en plej granda atendo pri la programo, entenanta Schuman, Wagner, Boccherini, Beethoven. La halo estis certe plenplena, sed ĉi tie, en la strateto, en freŝa aero, ja estis pli bone – kaj sen pagi la bileton!
Tra la malfermitaj fenestroj eliris flustrado de la kunvenintoj, ŝovado de la seĝoj, susurado de silkvaj vestoj.
De tempo al tempo violonagordo, raŭka trombonsono, vokanta voĉo.
La strateto estis, momente, plene lumigita de la luno, kiu sin liberiginte el la embaraso de malbonpromesaj nuboj, serene rigardis en la ĉielo. Ni interbabiladis atendante. Apud mi sidis okulvitra homo kun mallonga nezorgita nigra barbo. Fremdulo. Mi ne scias, kiel mi lin alparolis, kaj ja ne scias kial. Certe estas, ke mia apudulo, dum demando kaj respondo ĉiam mallongaj, al mi diris, ke li estas germano, ke li estas profesoro pri germana lingvo, kaj ke li deziras esti konata. Tion li diris, kompatindulo, kun tia mieno! Li ŝajnis humiligita. Germano? Profesoro? Certe li konas mian amikon Otto Richter.
“Otto Richter” li murmuris serĉante en memoro.
Poste li diris: “Ha, Richter!”
“Do?”
“Mortinta. Otto Richter? Profesoro? Mortinta”.
Io tre simpla por tiu sinjoro meditema. Sed… bedaŭrata Richter! Kiel?
Mia apudulo ankoraŭ pensis. “Jen, li mortis tiel – kaj li al si batis la frunton – cerba malsano. Tri tagojn, ne pli, poste mortis”.
Post momento li eltiris el grandega paperujo sian karton kaj al mi ĝin prezentis. Sur ĝi estis manskribite: Konrado Weber, profesoro pri germana lingvo.
“Mi petas pardonon” balbutis la mizerulo “mi estas en Napolo, sola, sola. Tiel oni vivas, sinjoro, laborante. Richter mia bona amiko, bedaŭrindulo.”
Neatendita, bruega manklakado el halo aŭdiĝis, tuj poste la orkestro ekludis la Reĝan Marŝon. La Reĝino estis eniranta. Pasis kvar minutoj, neniu spiris en la strateto. Mi pensis al mia maljuna amiko Richter, al mia bedaŭrinda maljunuleto tiel stranga…
“Kaj kiam li mortis?”
“Psst!” diris Weber. “Mi petas pardonon, Sinjoro. Poste”. Ekludis la muziko. Weber stariĝis, demetis la ĉapelon kaj ekaŭskultis kun religia atento.
Salvatore Di Giacomo, trad. Michele Arabeno
(“Literatura Mondo”, decembro 1935)

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