Personaggi

Ignazio Silone

Il 22 agosto ricorre la morte (nel 1978) dello scrittore e politico italiano (abruzzese) Secondo Tranquilli (1900-1978), conosciuto con lo pseudonimo Ignazio Silone (divenuto anche nome legale dagli anni sessanta)
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famoso soprattutto per il romanzo “Fontamara” (nome di un immaginario paesino abruzzese, in cui forse è da riconoscere la cittadina natale, Pescina); è la storia delle vicende di umili contadini, oppressi da potenti proprietari e dalle autorità fasciste.
Silone è uno degli scrittori italiani più tradotti e letti nel mondo, mentre in Italia è stato a lungo non conosciuto o addirittura volutamente ignorato (anche per gli argomenti dei suoi romanzi, di forte denuncia politica e sociale), e solo tardivamente riabilitato.
A lungo esule durante il regime fascista, pubblicò il suo capolavoro “Fontamara” all’estero (Zurigo 1933 in italiano; Parigi 1933 in italiano; Basilea 1934 in tedesco; Amsterdam 1939 in Esperanto, trad. A. Angelo e J. van Scheepen). Gli esperantisti stranieri, quindi, furono in grado di conoscere il romanzo fin dal 1939, cioè molto prima degli italiani in Italia (la prima edizione in italiano stampata in Italia è del 1947).
È da notare che la versione in Esperanto non coincide con quella in italiano pubblicata nel dopoguerra, profondamente rimaneggiata dall’autore; sarebbe interessante un confronto dettagliato, per capire i motivi delle modifiche.
Del testo in Esperanto, oltre all’edizione a stampa, esiste anche una versione in formato elettronico (ed. Inko), peraltro non più raggiungibile in rete dopo la morte di Franko Luin.
Trascrivo alcuni passaggi dell’introduzione di “Fontamara”, in italiano e in Esperanto, con interessanti considerazioni sociolinguistiche e con un esplicito accenno all’Esperanto, ed allego:
– la copertina dell’edizione in Esperanto di “Fontamara”;
– una vecchia cartolina, con l’immagine del Castello di Avezzano (vicino a Pescina), semidistrutto dal terremoto del 1915, che lasciò una profonda traccia nell’animo di Silone.


Da “Fontamara”:

Ora, due avvertenze. Questo racconto apparirà al lettore straniero, che lo leggerà per primo, in stridente contrasto con la immagine pittoresca che dell’Italia meridionale egli trova frequentemente nella letteratura per turisti. In certi libri, com’è noto, l’Italia meridionale è una terra bellissima, in cui i contadini vanno al lavoro cantando cori di gioia, cui rispondono cori di villanelle abbigliate nei tradizionali costumi, mentre nel bosco vicino gorgheggiano gli usignoli.
Purtroppo, a Fontamara, queste meraviglie non sono mai successe.
I Fontamaresi vestono come i poveracci di tutte le contrade del mondo. E a Fontamara non c’è bosco: la montagna è arida, brulla, come la maggior parte dell’Appennino. Gli uccelli sono pochi e paurosi, per la caccia spietata che a essi si fa. Non c’è usignolo; nel dialetto non c’è neppure la parola per designarlo.
I contadini non cantano, né in coro, né a soli; neppure quando sono ubriachi, tanto meno (e si capisce) andando al lavoro.
Invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira, e perfino la devozione religiosa, bestemmiano. Ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due tre santi di loro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce.
La seconda avvertenza è: in che lingua devo adesso raccontare questa storia? A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino l’italiano.
La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l’esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci.
Naturalmente, prima di me, altri cafoni meridionali han parlato e scritto in italiano, allo stesso modo che andando in città noi usiamo portare scarpe, colletto, cravatta. Ma basta osservarci per scoprire la nostra goffaggine. La lingua italiana nel ricevere e formulare i nostri pensieri non può fare a meno di storpiarli, di corromperli, di dare a essi l’apparenza di una traduzione. Ma, per esprimersi direttamente, l’uomo non dovrebbe tradurre. Se è vero che, per esprimersi bene in una lingua, bisogna prima imparare a pensare in essa, lo sforzo che a noi costa il parlare in questo italiano significa evidentemente che noi non sappiamo pensare in esso (che questa cultura italiana è rimasta per noi una cultura di scuola).
Ma poiché non ho altro mezzo per farmi intendere (ed esprimermi per me adesso è un bisogno assoluto) così voglio sforzarmi di tradurre alla meglio, nella lingua imparata, quello che voglio che tutti sappiano: la verità sui fatti di Fontamara.
Tuttavia se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. È un’arte fontamarese. È quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia, o accanto al telaio, seguendo il ritmo del pedale, ascoltando le antiche storie.
Non c’è alcuna differenza tra questa arte del raccontare, tra questa arte di mettere una parola dopo l’altra, una riga dopo l’altra, una frase dopo l’altra, una figura dopo l’altra, di spiegare una cosa per volta, senza allusioni, senza sottintesi, chiamando pane il pane e vino il vino, e l’antica arte di tessere, l’antica arte di mettere un filo dopo l’altro, un colore dopo l’altro, pulitamente, ordinatamente, insistentemente, chiaramente. Prima si vede il gambo della rosa, poi il calice della rosa, poi la corolla; ma, fin da principio, ognuno capisce che si tratta di una rosa. Per questo motivo i nostri prodotti appaiono agli uomini della città cose ingenue, rozze. Ma, abbiamo noi mai cercato di venderli in città? Abbiamo mai chiesto ai cittadini di raccontare i fatti loro a modo nostro? Non l’abbiamo mai chiesto.
Si lasci dunque a ognuno il diritto di raccontare i fatti suoi a modo suo.
Ignazio Silone.
Davos (Svizzera), estate 1930.

El “Fontamara”:

Nun du rimarkigojn. Ĉi tiu rakonto ŝajnos al la leganto akre kontrasta al la pitoreska bildo pri Suditalio, kia la literaturo ĝin ofte prezentas. Estas konate, ke en libroj Suditalio estas benita kaj belega tero, kie la kamparanoj iras al la laboro kantante en ĥoro pro ĝojo, al kio ĥore respondas la vilaĝaninoj vestitaj per belegaj tradiciaj vestoj, dum kiam en apuda arbaro trilas najtingaloj.
Sed, ho ve! … en Fontamara ĉi tio neniam okazis.
Kiu serĉos en la rakonto ian folkloron, estos seniluziigita. Li ne trovos eĉ unu vorton pri la vestmaniero de la fontamaranoj, nek unu solan vorton en dialekto. En Fontamara ne ekzistas arbaro! La montoj estas sekaj kaj nefekundaj, kia la plej granda parto de Apenino (montaro en meza Italio). Birdoj estas malmultaj. Ne estas najtingalo; en la dialekto eĉ ne ekzistas vorto por ĝi. La kamparanoj ne kantas, nek ĥore, nek solaj, ankaŭ ne, kiam ili estas ebriaj, do, tiom malpli, kiam ili iras al la laboro. Anstataŭ kanti, ili blasfemas. Por esprimi grandan emocion, ĝojegon aŭ malpacon, ili blasfemas.
Sed ankaŭ en la blasfemado ili ne havas fantazion, fantazion ekzemple de la florentanoj; la fontamaranoj elektas ĉiam el du aŭ tri sanktuloj, konataj de ili kaj ĉi tiujn misuzas ĉiam per la samaj vortoj.
Ĉi tio estas la unua rimarkigo.
La dua estas ĉi tiu: en kiu lingvo mi rakontu la historion?
Neniu pensu, ke la fontamaranoj parolas italan lingvon. Itala lingvo estas por ni lingvo lernita en la lernejo, kiel latina, franca aŭ esperanta. Itala lingvo estas por ni fremda lingvo, morta lingvo, lingvo, kies vortaron kaj gramatikon oni verkis, ne kontaktinte kun ni, nia vivmaniero, nia agmaniero, nia pensmaniero, nia esprimmaniero.
Kompreneble, jam antaŭ mi, aliaj sudaj kafonoj parolis kaj skribis itallingve en la sama maniero, kiel ni, irontaj en la urbon, surmetas ciritajn ŝuojn kaj kolumon kun kravato. Sed sufiĉas observi nin por rimarki nian neklerecon. Itala lingvo ne povas fari ion alian, krom kripligi en la formado niajn pensojn, rompi ilin, donante al ili sensencan kaj banalan aspekton, aspekton de traduko. Sed, por bone sin esprimi, la homo ne traduku. Se estas vere, ke, por flue esprimi sin en iu lingvo, necesas antaŭe lerni pensi en ĝi, la peno, kiun kostas al ni paroli itallingve, signifas evidente, ke ni ne scias pensi en ĝi, (do, ke ĉi tiu itala kulturo estas por ni fremda). Sed, ĉar ni ne havas alian manieron komprenigi nin (kaj komprenigi nin estas por ni afero pri vivo aŭ morto), tial ni penos plej eble bone traduki en la lingvon, kiun ni lernis en la lernejo, tion, kion ni deziras, ke ĉiuj sciu: la veron pri la okazintaĵoj en Fontamara.
Kvankam ni prunteprenas la lingvon, la maniero rakonti apartenas al ni. Ĝi estas fontamara arto. Ĝi estas la sama, kiun ni eklernis en junaĝo dum longaj, sendormaj noktoj, ĉe la ŝpinilo, sekvante ĝian ritmon.
Ekzistas nenia diferenco inter ĉi tiu rakontarto, inter ĉi tiu arto meti vorton post vorton, linion post linion, frazon post frazon, figuron post figuron, kaj la antikva teksarto, la antikva arto meti fadenon post fadenon, koloron post koloron, ordige, purege, insiste, klare. Antaŭe vidiĝas la trunketo de la rozo, post tio la folioj, poste la kaliko kaj poste la koroloj; sed de la komenco ĉiu komprenas, ke temas pri rozo. Pro tio niaj produktoj ŝajnas al 1a urbanoj senkulpaj kaj malkleraj; sed, ĉu ni iam klopodis vendi ilin en la urbo? Ĉu ni ofertis ilin en la urbo? Egale: ĉu ni iam petis al la urbanoj rakonti siajn okazintaĵojn laŭ nia maniero? Ĉi tion ni neniam petis.
Ĉiu do havu la rajton, rakonti siajn spertojn laŭ propra maniero.

Zürich, someron 1930a.
IGNAZIO SILONE.

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