Il 23 febbraio ricorre la morte (nel 1821) del poeta inglese John Keats (1795-1821),
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uno dei più grandi del Romanticismo.
Malato di tisi, il 13 settembre 1820 s’imbarcò per Italia su consiglio dei medici, sperando di trovare un clima più mite; ma fu colpito da una tempesta, e poi bloccato a Napoli e tenuto in quarantena, perché sembrava che in Inghilterra fosse scoppiata un’epidemia di colera, sicché giunse a Roma soltanto il 14 novembre, quando ormai faceva freddo.
Andò ad abitare al numero 26 di piazza di Spagna, nel palazzo a destra della scalinata di Trinità de’ Monti dove oggi ha sede la “Keats-Shelley Memorial House”. Dopo qualche mese si spense, a poco più di 25 anni.
Fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma; sulla sua tomba Keats non volle né il nome, né la data di morte, ma soltanto questo epitaffio:
«This grave contains all that was mortal, of a YOUNG ENGLISH POET, who on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tombstone: “Here lies one whose name was writ in water”»
Cioè:
«Questa tomba contiene tutto ciò che fu mortale di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua”».
Allego – in inglese, italiano ed Esperanto – una delle poesie di Keats tradotte in Esperanto, “Ode on a grecian urn” – “Ode su un’urna greca” – “Odo al greka urno”, trad. John I. Francis, Literatura Foiro 1981-68, p. 4-5.
Allego anche una antica cartolina con la Scalinata di Trinità de’ Monti e (sulla destra) la casa dove abitò e morì Keats.
ODE ON A GRECIAN URN
Thou still unravished bride of quietness!
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flow’ry tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fringed legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?
Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensual ear, but, more endeared,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal -yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!
Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoyed,
For ever panting and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloyed,
A burning forehead, and a parching tongue.
Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea-shore,
Or mountain-built with peaceful citadel,
Is emptied of its folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.
O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou sayst,
“Beauty is truth, truth beauty,” -that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.
John Keats
ODE SU UN’URNA GRECA
I
Tu, ancora inviolata sposa della quiete,
figlia adottiva del tempo lento e del silenzio,
narratrice silvana, tu che una favola fiorita
racconti, più dolce dei miei versi,
quale intarsiata leggenda di foglie pervade
la tua forma, sono dei o mortali,
o entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia?
E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose?
Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?
E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia?
II
Sì, le melodie ascoltate sono dolci; ma più dolci
ancora sono quelle inascoltate. Su, flauti lievi,
continuate, ma non per l’udito; preziosamente
suonate per lo spirito arie senza suono.
E tu, giovane, bello, non potrai mai finire
il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli;
e tu, amante audace, non potrai mai baciare
lei che ti è così vicino; ma non lamentarti
se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire,
e tu l’amerai per sempre, per sempre così bella.
III
Ah, rami felici! Non saranno mai sparse
le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera;
e felice anche te, musico mai stanco,
che sempre e sempre nuovi canti avrai;
ma più felice te, amore più felice,
per sempre caldo e ancora da godere,
per sempre ansimante, giovane in eterno,
superiori siete a ogni vivente passione umana
che il cuore addolorato lascia e sazio,
la fronte in fiamme, secca la lingua.
IV
E chi siete voi, che andate al sacrificio?
Verso quale verde altare, sacerdote misterioso,
conduci la giovenca muggente, i fianchi
morbidi coperti da ghirlande?
E quale paese sul mare, o sul fiume,
o inerpicato tra la pace dei monti
hai mai lasciato questa gente in questo sacro mattino?
Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre,
e mai nessuno tornerà a dire
perché sei stato abbandonato.
V
Oh, forma attica! Posa leggiadra! Con un ricamo
d’uomini e fanciulle nel marmo,
coi rami della foresta e le erbe calpestate.
Tu, forma silenziosa, come l’eternità
tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale!
Quando l’età avrà devastato questa generazione,
ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori
non più nostri, amica all’uomo, cui dirai
“Bellezza è verità, verità bellezza”, questo solo
sulla terra sapete, ed è quanto basta.
John Keats
www.incontroallapoesia.it/poesie-JOHN-KEATS.htm
ODO AL GREKA URNO
1
Ankoraŭ ĉasta nuptulin’ kvieta,
vartito de eterno kaj silento,
boskokronik’ pli dolĉe interpreta
pri floraj fabloj ol rimelokvento.
Kiu legendo viajn kurbojn hantas
pri dioj kaj mortuloj interfrondaj
en Tempe aŭ en valo arkadia?
Kiuj la viroj, dioj? Inoj hontaj?
Kiuj ĉasluktoj febre sarabandas?
Kiuj tamburoj, ŝalmoj? Danc’ orgia?
2
Aŭditaj tonoj dolĉas; neaŭditaj
efikas pli; do sonu, softaj flutoj,
ne al orel’ sentema sed, elitoj,
al la spirit’, per melodi’ el mutoj.
Junul’ sub arbo, vi neniam povos
eklasi kanton pli ol ĝin foli’.
Amanto, vi ne trafos ŝin je kiso
kvankam tuŝonta – sed vi daŭre provos,
ĉar ŝi ne velkos; kaj eĉ sen delico
eterne vi amados, belos ŝi.
3
Feliĉaj frondoj, en printemp’ nemigra
tenantaj la foliojn plu senmovajn;
kaj ĝoja muzikist’ eterne vigla,
ĉiam flutante trilojn ĉiam novajn;
pli ĝoja am’! Pli ĝoja, ĝoja amo:
eterne varma, ĉiam tuj ĝuota,
fervora ĉiam, kaj eterne juna;
supera al la homa pasiflamo,
kiu la koron lasas poste kota,
la frunton febra, kaj la langon fuma.
4
Kiuj votontoj venas al ofero?
Mistera pastro, kien vi algvidas
ĉi gunon vemuĝantan al ĉielo,
kies silkecaj flankoj festonitas?
Kiu urbeto apud bord’ kuŝante,
aŭ en montar’, kun paca citadelo,
dum ĉi mateno pia do malplenos?
Malplenos, ho urbet’, denun konstante;
neniu kun inform’ pri malapero
de via loĝantar’ iam revenos.
5
Atika stil’: impresa konkretigo,
kun viroj kaj virinoj el fajenco,
kun boska branĉo kaj tretita tigo.
Silenta form’, vi ruas nin el penso,
kiel eterno: frida Pastoralo!
Kiam la nunon vindos dekadenco
restados vi en mez’ de novaj veoj,
amiko al homar’, kun ĉi sentenco:
BELO KUN VER’ IDENTAS – jen realo
sub ĉiuj fenomenoj kaj ideoj.
John Keats, trad. John I. Francis
(“Literatura Foiro” 1981-68, p. 5-6)