Homoj

Luigi Pirandello

La 10-a de decembro estas la datreveno de la morto (en 1936) de la sicilia dramisto, verkisto kaj poeto Luigi Pirandello (1867-1936),

eo.wikipedia.org/wiki/Luigi_Pirandello

naskiĝinta en Girgenti, nuntempe Agrigento, Nobelpremiito por Literaturo en 1934.

Mi jam parolis pri li la 28-an de majo 2017.

www.bitoteko.it/esperanto-vivo/eo/2017/06/28/luigi-pirandello/

Mi transskribas, en la itala kaj en ĝia traduko al Esperanto, la novelon “La giara” (La ĵaro); la komedio tirita el la novelo estis ludita, en Esperanto, de la lernantoj de la Elementa Lernejo “Dante Alighieri – Oltresavio” de Ĉezeno (Cesena) la 15-an de majo 1978, dum la 30-a IFEF-kongreso en Romo (raportis “L’Esperanto” 1978-6, paĝoj 3-4).

Mi aldonas:

– la kovrilon de la volumo de Carlo Minnaja “Luigi Pirandello kaj aliaj siciliaj aŭtoroj” (Milano, FEI 2012);

– la italan poŝtmarkon de 1967, laŭ skizo de Pietro Cuzzani kaj Ettore Consolazione, pro la unuajarcenta datreveno de la naskiĝo de la verkisto.


(Sekvas traduko al Esperanto)

LA GIARA

Luigi Pirandello

Piena anche per gli olivi quell’annata. Piante massaje, cariche l’anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.

Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.

Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l’attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d’onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.

Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: – Sellate la mula! – Ora, invece: – Consultate il calepino! –

E Don Lollò rispondeva:

– Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane!

Quella bella giara nuova, pagata quattr’onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s’era mai veduta. Allogata in quell’antro intanfato di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghi senz’aria e senza luce, faceva pena.

Da due giorni era cominciata l’abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.

Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.

– Guardate! guardate!

– Chi sarà stato?

– Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!

Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.

Ma il secondo:

– Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel’abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!

Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:

– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!

Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell’uomo sempre infuriato.

– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!

Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:

– Sangue della Madonna, me la pagherete!

Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:

– La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non incignata ancora!

Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!

Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l’avrebbe rimessa su, nuova. C’era giusto Zi’ Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell’alba, Zi’ Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr’otto, la giara, meglio di prima.

Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch’era tutto inutile; che non c’era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all’alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi’ Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.

Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d’inventore non ancora patentato.

Voleva che parlassero i fatti, Zi’ Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.

– Fatemi vedere codesto mastice – gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.

Zi’ Dima negò col capo, pieno di dignità.

– All’opera si vede.

– Ma verrà bene?

Zi’ Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l’attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d’occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi’ Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull’aja. Disse:

– Verrà bene.

– Col mastice solo però – mise per patto lo Zirafa – non mi fido. Ci voglio anche i punti.

– Me ne vado – rispose senz’altro Zi’ Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.

Don Lollò lo acchiappò per un braccio.

– Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po’ che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d’asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.

Zi’ Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d’arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.

– Se la giara – disse – non suona di nuovo come una campana…

– Non sento niente, – lo interruppe Don Lollò. – I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?

– Se col mastice solo…

– Càzzica che testa! – esclamò lo Zirafa. – Come parlo? V’ho detto che ci voglio i punti. C’intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.

E se ne andò a badare ai suoi uomini.

Zi’ Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.

– Coraggio, Zi’ Dima! – gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.

Zi’ Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt’in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc’anzi. Prima di cominciare a dare i punti:

– Tira! – disse dall’interno della giara al contadino. – Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va’, va’ a dirlo al tuo padrone!

– Chi è sopra comanda, Zi’ Dima, – sospirò il contadino – e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.

E Zi’ Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.

– Ora ajutami a uscirne, – disse alla fine Zi’ Dima.

Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’ Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.

Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi’ Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.

– Fatemi uscire! – urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!

Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.

– Ma come? là dentro? s’è cucito là dentro?

S’accostò alla giara e gridò al vecchio:

– Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio… così! e la testa… su… no, piano! Che! giù… aspettate! così no! giù, giù… Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! – si mise a raccomandare tutt’intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. – Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo… La mula!

Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.

– Bella! Rimessa a nuovo… Aspettate! – disse al prigioniero. – Va’ a sellarmi la mula! – ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po’ che mi capita! Questa non è giara! quest’è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»

E accorse a regger la giara, in cui Zi’ Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.

– Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l’avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell’interesse vostro… Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?

– Non voglio nulla! – gridò Zi’ Dima. – Voglio uscire.

– Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.

Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:

– Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l’abbia dato.

Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.

Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell’avvocato; ma gli toccò d’attendere un bel po’, prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.

– Che c’è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!

Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com’era stato, per farci su altre risate. “Dentro, eh? S’era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi… tenerlo là dentro per non perderci la giara?”

– Ce la devo perdere? – domandò lo Zirafa con le pugna serrate. – Il danno e lo scorno?

– Ma sapete come si chiama questo? – gli disse infine l’avvocato. – Si chiama sequestro di persona!

– Sequestro? E chi l’ha sequestrato? – esclamò lo Zirafa. – Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?

L’avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall’altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.

– Ah! – rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!

– Piano! – osservò l’avvocato. – Non come se fosse nuova, badiamo!

– E perché?

– Ma perché era rotta, oh bella!

– Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!

L’avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.

– Anzi – gli consigliò – fatela stimare avanti da lui stesso.

– Bacio le mani – disse Don Lollò, andando via di corsa.

Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi’ Dima s’era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.

Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.

– Ah! Ci stai bene?

– Benone. Al fresco – rispose quello. – Meglio che a casa mia.

– Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr’onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?

– Come me qua dentro? – domandò Zi’ Dima.

I villani risero.

– Silenzio! – gridò lo Zirafa. – Delle due l’una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com’è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.

Zi’ Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:

– Rispondo. Se lei me l’avesse fatta conciare col mastice solo, com’io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.

– Un terzo? – domandò lo Zirafa. – Un’onza e trentatré?

– Meno sì, più no.

– Ebbene, – disse Don Lollò. – Passi la tua parola, e dammi un’onza e trentatré.

– Che? – fece Zi’ Dima, come se non avesse inteso.

– Rompo la giara per farti uscire, – rispose Don Lollò – e tu, dice l’avvocato, me la paghi per quanto l’hai stimata: un’onza e trentatré.

– Io pagare? – sghignazzò Zi’ Dima. – Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.

E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l’accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.

Don Lollò ci restò brutto. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l’avvocato l’avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.

– Ah, sì – disse. – Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l’uso della giara.

Zi’ Dima cacciò prima fuori un’altra boccata di fumo, poi rispose placido:

– Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria!

Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.

– Vede che mastice? – gli disse Zi’ Dima.

– Pezzo da galera! – ruggì allora lo Zirafa. – Chi l’ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!

E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi’ Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all’aperto, su l’aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c’era una luna che pareva fosse raggiornato.

A una cert’ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d’inferno. S’affacciò a un balcone della cascina, e vide su l’aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola.

Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

E la vinse Zi’ Dima.

°°°°°

(traduko)

LA ĴARO

de Luigi Pirandello

Riĉa ankaŭ por la olivarboj, tiu jaro. Dikaj plantoj, fruktoplenaj la antaŭan jaron, konfirmis ĉiuj sian staton, spite al la nebulo, kiu ilin subpremis dum la florado.

La Ĝirafulo 1, kiu havis abundon da ili en sia bieno de la Altaĵoj ĉe Primosole 2, antaŭvidante ke la kvin ĵaroj malnovaj el emajlita terakoto, kiujn li havis en la kelo, ne sufiĉos por enteni la tutan oleon de la nova rikolto, estis mendinta siatempe sesan pli entenkapablan en Santo Stefano di Camastra 3, kie oni ilin fabrikis: alta ĝis homa brusto, dikventra kaj majesta, ke ĝi estu la mastrino de la aliaj.

Eĉ ne menciinde, ke li kverelis ankaŭ kun la tiea potfaristo pri ĉi tiu ĵaro. Nu, kun kiu ne ekdisputis mastro Lollò Ĝirafulo? Pro ĉia ajn bagatelo, eĉ pro eta ŝtono falinta de la zonmureto, eĉ pro pajlero li kriis, ke oni selu por li la mulinon por kuri al la urbo por startigi proceson. Tiel, pro la amaso da stampopaperoj kaj da advokataj honorarioj, asignante tiun kaj tiun alian, kaj pagante la elspezojn por ĉiuj, li estis preskaŭ ruiniginta sin.

Oni diradis, ke lia jura konsilisto, laca lin vidi iam alvenanta du aŭ tri fojojn semajne, por liberiĝi je li estis donacinta al li libreton kiel tiuj de la meso: la kodon, por ke li cerbumu serĉante mem la juran fundamenton de la procesoj kiujn li volas startigi.

Antaŭe ĉiuj, kiuj havis kun li konflikton, por lin moki kriis: “Selu la mulinon!” Nun, male: “Konsultu vian misalon!”

Kaj mastro Lollò respondis:

“Certe, kaj mi disrompos vin ĉiujn, fiuloj!”

Tiu nova ĵaro, pagita kvar sonantajn orajn uncojn, en la atendo pri trovota loko en la kelo, estis lokita provizore en la vitpremejo. Ĵaron tian oni vidis neniam. Lokita en tiu kavo fetoranta je mosto kaj je tiu akra kaj kruda odoro kovanta en senaeraj kaj senlumaj ejoj, ĝi stimulis kompaton.

De du tagoj estis komenciĝinta la batfaligo de la olivoj, kaj mastro Lollò estis tute furioza ĉar, inter la faligistoj kaj la mulistoj venintaj kun la mulinoj plenŝarĝitaj per sterko, demetota laŭ amasetoj sur la deklivo por la fabplantado de la nova sezono, li ne sciis plu kiel sin dividi, kiun kontroli unue. Kaj li blasfemis kvazaŭ turko 4 kaj minacis disrompi tiujn kaj tiujn aliajn, se unu olivo, ja eĉ nur unu olivo, mankus, kvazaŭ li estus ilin ĉiujn kalkulinta unuope sur la arboj; aŭ se la sterko ne estus distribuita laŭ tute samgrandaj amasetoj. Kun la blanka ĉapelaĉo, en nura ĉemizo, nudbrusta, kun fajra vizaĝo kaj tute gutiganta ŝviton, li kuradis ien kaj tien, turnante la lupajn okulojn, frotante al si kolere la razitajn vangojn, sur kiuj la superreganta barbo denove ekaperis preskaŭ samtempe kun la pasado de la razilo.

Nun, je la fino de la tria tago, tri el la kampuloj kiuj estis batfaligintaj la olivojn, enirinte la vitpremejon por demeti la kestojn kaj la kanojn, konsterniĝis je la vido de la bela nova ĵaro fendita en du partojn, kvazaŭ iu, per neta tranĉo, prenante la tutan amplekson de la ventro, estus deiginta la tutan antaŭan parton.

“Rigardu! Rigardu!”

“Kiu faris tion?”

“Ho Virgulino! Kiu eltenos nun mastron Lollò? La ĵaro nova, bedaŭrinde!”

La unua vidinto, pli timema ol ĉiuj, proponis refermi tuj la pordoklapon kaj foriri tute silente, apoginte al la muro la eskalojn kaj la kanojn. Sed la dua: “Ĉu vi frenezas? Kun mastro Lollò? Li kapablus supozi, ke ĝin rompis ni. Ĉiuj restu ĉi tie!”

Li eliris el al vitpremejo kaj, uzante la manojn kiel laŭtigilon, vokis:

“Mastro Lollò! Hej, mastro Lollò!”

Jen li sub la deklivo, kun la sterkoŝarĝistoj: li gestadis furioze, kiel kutime, premante de tempo al tempo sur la kapon per ambaŭ manoj la blankan ĉapelaĉon. Okazis kelkfoje, ke kun tiom da surkapaj premoj, li ne plu sukcesis ĝin fortiri de la nuko kaj de la frunto. Jam en la ĉielo estingiĝis la lastaj fajroj de la krepusko, kaj en la paco descendanta sur la kamparon kun la ombroj de la vespero kaj la dolĉa malvanneta aero evidentiĝis la gestoj de tiu homo ĉiam furioza.

“Mastro Lollò! Hej, mastro Lollò!”

Kiam li suprenvenis kaj vidis la katastrofon, li ŝajnis ekfrenezi. Tutunue li sinĵetis kontraŭ tiujn tri, kaptis unu el ili je la gorĝo kaj lin kroĉis al la muro, kriante:

“Sango de la Madono, vi pagos por tio!”

Alfrontate siavice de la aliaj du, taŭzitaj, kun vizaĝoj terkoloraj kaj bestaj, li turnis kontraŭ sin mem sian furiozan koleron, disbatis teren sian ĉapelaĉon, frapis siajn vangojn, stamfante kaj kriegante kiel tiuj kiuj priploras perditan parencon:

“La ĵaro nova! Kostinta kvar uncojn! Ankoraŭ ne uzita!”

Li volis ekscii, kiu rompis ĝin! Ĉu eblas, ke ĝi rompiĝis per si mem? Certe iu ĝin rompis, pro malico aŭ envio! Sed kiam? Sed kiel? Oni vidis neniun signon de perforto! Ĉu gi alvenis rompita el la fabriko? Ja ne! Ĝi sonis kiel sonorilo!

Tuj kiam la kampuloj vidis, ke la unuamomenta furiozo forfalis, ili komencis lin instigi al trankviliĝo. La ĵaron oni povas ripari. Ĝi ja ne estis malbone rompita. Nur unu peco. Lerta potisto ĝin rearanĝus nova. Estis ĝuste majstro Dima Licasi, kiu malkovris miraklan mastikon, pri kiu li ĵaluze gardis la sekreton: mastiko, kiun eĉ ne la martelo sukcesas rompi, kiam gi hardiĝis. Jen: se mastro Lollò volas, morgaŭ, jam ĉe la sunleviĝo, majstro Dima Licasi venos tien, kaj, tute rapide, la ĵaro jsn pli bela ol antaŭe.

Mastro LoIlò rifuzis, je tiuj instigoj: ĉio estas senutila, ne plu estas rimedo; sed fine li lasis sin persvadi, kaj la postan tagon, je la sunleviĝo, akurate, alvenis al Primosole majstro Dima Licasi kun la korbo de la instrumentoj malantaŭ la ŝultroj.

Li estis maljunulo oblikvakorpa, kun la artikoj kriplaj kaj nodoplenaj, kiel antikva trunkostumpo de oleastro. Por eltiri vorton el lia buŝo necesis hoko. Paŭto, aŭ malgajo, enradikiĝis en tiu korpo kripla; aŭ eble malkonfido, ke iu povu kompreni kaj ĝuste aprezi tiun lian meriton de inventisto ankoraŭ ne diplomita. Li, majstro Dima Licasi volis, ke parolu la faktoj. Krome li devis gardi sin de ĉiuj flankoj, por ke oni ne forŝtelu de li la sekreton.

“Montru al mi ĉi faman mastikon” diris tutunue mastro Lollò, lin trarigardinte longe, suspekteme.

Majstro Dima kapneis, dignoplene.

“Laŭ la verko oni konas.”

“Ĉu ĝi bone sukcesos?”

Majstro Dima apogis teren la korbon, kaj eltiris grandan tukon el ruĝa kotono, trivitan kaj tute volvitan; li komencis ĝin malvolvi tre malrapide, en la atendo kaj la scivolemo de ĉiuj, kaj kiam je la fino ekaperis paro da okulvitroj kun la centra ponteto kaj la stangetoj ligitaj per ŝnureto, li suspiris kaj la aliaj ridis. Majstro Dima ne zorgis; li purigis siajn fingrojn antaŭ ol preni la okulvitrojn, ilin surnazigis; poste li komencis ekzameni ege seriozmiene la ĵaron metitan sur la kortogrundon. Li diris:

“Ĝi bone sukcesos.”

“Per la nura mastiko tamen,” diris la Ĝirafulo kvazaŭ starigante pakton, “mi ne fidas. Necesas ankaŭ krampoj.”

“Mi foriras” respondis senreplike majstro Dima, ekstarante kaj remetante la korbon malantaŭ siajn ŝultrojn.

Mastro Lollò lin kaptis ĉe brako.

“Kien? Trudaĉulo kaj porko, ĉu tiel vi traktas? Sed nu, rigardu kiel li paradas kvazaŭ Karolo la Granda! Senmona mizerulo kaj azeno, mi devas enmeti oleon en ĝin, kaj la oleo traŝvitiĝas! Fendo unu mejlon longa, per nura mastiko? Necesas krampoj. Mastiko kaj krampoj. Estras mi.”

Majstro Dima fermis la okulojn, kunpremis la lipojn kaj skuis la kapon. Ĉiuj tiel! Oni malpermesis al li la plezuron fari taŭgan laboron, konscience perfektan laŭ ĉiuj reguloj de l’ arto, kaj doni pruvon de la kvalito de sia mastiko.

“Se la ĵaro” li diris “ne sonas ree kiel sonorilo…”

“Mi aŭskultas nenion” interrompis mastro Lollò. “La krampoj! Mi pagas mastikon kaj krampojn. Kiom mi ŝuldas?”

“Se per la nura mastiko…”

“Diable, kia ŝtipkapulo!” ekkriis la Ĝirafulo. “Kiun lingvon mi parolas? Mi diris ke mi volas la krampojn. Ni interkonsentos post la laborfino: mi ne havas tempon por perdi kun vi.”

Kaj li iris zorgi pri siaj homoj.

Majstro Dima eklaboris, ŝvela je kolero kaj spitemo. Kaj la kolero kaj spitemo kreskis je ĉiu truo, kiun li faris per la borilo en la ĵaro kaj en la deigita parto por tratredi la ferfadenon de la kudro. Li akompanis la bruon de la borilpinto per gruntoj pli kaj pli oftaj kaj fortaj, kaj lia vizaĝo iĝis pli verda pro la galo kaj la okuloj pli akraj kaj flamaj pro iritiĝo. Fininte tiun unuan laboron, li kolere ĵetis la borilon en la korbon; li almetis la deigitan parton al la ĵaro por provi, ĉu la truoj estas egaldistancaj kaj respondaj inter si, poste per la tenajlo li faris el la ferdrato tiom da pecetoj kiom estis la krampoj kiujn li devis aranĝi, kaj vokis por helpo unu el la kampuloj kiuj batfaligas la olivojn.

“Kuraĝu, majstro Dima!” diris tiu, vidante lian vizaĝon perturbita. Majstro Dima levis manon je kolera gesto. Li malfermis la ladskatolon entenantan la mastikon, kaj ĝin levis ĉielen, ĝin skuante, kvazaŭ por oferi ĝin al Dio, konsiderante, ke la homoj ne volas agnoski ĝian kvaliton: poste per la fingro li komencis ĝin ŝmiri tute ĉirkaŭe laŭ la rando de la deigita peco kaj laŭ la fendo; li prenis la tenajlon kaj la pecetojn de la ferdrato pretigitajn antaŭe kaj eniris la ventron malfermitan de la ĵaro, ordonante al la kampulo ke li almetu la deigitan pecon al la ĵaro kiel li mem estis ĵus farinta. Antaŭ ol komenci krampi:

“Tiru” li diris de interne de la ĵaro al la kampulo. “Tiru per via tuta forto! Vidu, ĉu ĝi ankoraŭ deiĝas? Malbenon al kiu ne kredas! Frapu, frapu! Ĉu ĝi sonas aŭ ne, kiel sonorilo, eĉ kun mi interne? Iru, iru diri tion al via mastro!”

“Kiu estas supre estras, majstro Dima” suspiris la kampulo, “kaj kiu estas sube sin elĉerpas! Metu, metu la krampojn.”

Kaj majstro Dima tredis la unuopajn ferpecetojn tra la du truoj apudaj, unu tie kaj la alia aliflanke de la kunigo; kaj per la tenajlo li kuntordis la du ekstremojn. Necesis unu horo por tredi ĉiujn. Ŝvitado, fontanflue, en la ĵaron. Laborante, li plendis kontraŭ sia malbona sorto. Kaj la kampulo, ekstere, lin konsolis.

“Nun, helpu min elveni”, diris fine majstro Dima.

Sed, tiu ĵaro, kiom larĝa laŭventre, tiom estis mallarĝa ĉekole.

Majstro Dima, en la kolero, ne estis rimarkinta tion. Nun, post provoj kaj reprovoj, li ne trovis manieron eliri. Kaj jen tie la kampulo, anstataŭ lin helpi, tordiĝis pro ridado. Enfermita, enfermita tie, en la ĵaro de li mem riparita, kiu nun – ne estis rimedo – por lin elirigi devos esti rompita denove, kaj por ĉiam.

Je la ridoj, je la krioj alvenis mastro Lollò. Majstro Dima, ene de la ĵaro, estis kiel furioziĝinta kato.

“Helpu min elveni!” li kriis. “Korpo de Dio, mi volas elveni! Tuj! Helpu min!”

Mastro Lollò restis tutunue preskaŭ senkonscia. Li ne kapablis kredi. “Sed kiel? Tie interne? Ĉu li sin krampis interne?”

Li alproksimiĝis al la ĵaro kaj kriis al la maljunulo:

“Ĉu helpon? Kian helpon povas doni mi? Stulta maljunulaĉo, sed kiel? Ĉu vi ne devis antaŭe mezuri? Nu, provu elmeti brakon… tiel! Kaj la kapon… jes… ne, trankvile! Kio! Suben… atendu! Tiel ne! Suben, suben… Sed kiel vi faris? Kaj la ĵaro, nun? Trankvile! Trankvile! Trankvile!” li ekrekomendis al ĉiuj ĉirkaŭe, kvazaŭ la trakvilon estus perdontaj la aliaj, ne ja li. “Mia kapo fumas! Trankvile! Ĉi tiu estas kazo nova… La mulino!”

Li frapis per la fingroartikoj sur la ĵaron. Ĝi sonis vere kiel sonorilo.

“Bela! Renovigita… Atendu!” li diris al la kaptito. “Iru seli la mulinon!” li ordonis al la kampulo; kaj gratante per ĉiuj fingroj la frunton, li plue diris en si mem: “Nu, vidu, kio okazas al mi! Ĉi tiu ne estas ĵaro! Ĝi estas aparato de la diablo! Haltu! Haltu tie!”

Kaj li alkuris por teni la ĵaron en kiu majstro Dima, furioza, baraktis kiel besto en kaptilo.

“Kazo nova, karulo mia, kiun devas solvi la advokato! Mi ne fidas! La mulino! La mulino! Mi iras kaj tuj revenas, paciencu! En via intereso… Intertempe, kviete, trankvile! Mi devas zorgi pri miaj aferoj.

Kaj, antau ĉio, por gardi mian rajton, mi faras mian devon. ĵen, mi pagas vian verkon, mi pagas vian labortagon. Kvin liroj, ĉu sufiĉe?”

“Mi volas nenion!” kriadis majstro Dima. “Mi volas elveni!”

“Vi elvenos. Sed mi, intertempe, vin pagas. Jen, kvin liroj.”

Li ilin eltiris el la brustopoŝo kaj enĵetis en la ĵaron. Poste li demandis, zorgeme:

“Ĉu vi matenmanĝis? Pano kaj kunpanaĵo, tuj! Ĉu vi ne ĝin volas? Donu ĝin al la hundoj! Al mi sufiĉas, ke mi ĝin donis al vi.”

Li ordonis, ke oni donu; li grimpis sur la selon, kaj for, galope al la urbo. Kiu lin vidis, supozis, ke li iras sin enfermi mem en frenezulejon, tiom kaj tiom strange li gestadis. Bonŝance li ne devis atendi en la studejo de la advokato; sed li ja devis pli ol sufiĉe atendi, antaŭ ol tiu finis ridi, kiam li prezentis la kazon. Pri la ridoj mastro Lollò ĝeniĝis.

“Kio ridinda, pardonu? Vian moŝton tio ne agacas. La ĵaro estas mia!”

Sed tiu plue ridadis kaj volis, ke oni ree rakontu al li la okazintaĵon por plu ridi pri ĝi. Ene, ĉu? Krampita ene? Kaj li, mastro Lollò, kion li pretendis? Te… Te… teni lin interne… ha ha ha… huj huj huj… teni lin interne por ne perdi la ĵaron?”

“Ĉu mi devas ĝin perdi?” demandis la Ĝirafulo kun fermitaj pugnoj. “La damago kaj la honto?”

“Sed ĉu vi scias kiel nomiĝas tio?” diris al li fine la advokato. “Ĝi nomiĝas sekvestro de persono!”

“Sekvestro? Kiu lin sekvestris?” diris la Ĝirafulo. “Li sin sekvestris per si mem! Kiun kulpon havas mi’?”

La advokato tiam klarigis, ke la kazoj estas du. Unuflanke li, mastro Lollò, devis tuj liberigi la kaptiton por ne responsi pri sekvestro de persono; aliflanke, la potisto devis responsi pri la damaĝo, kiun li kaŭzis per sia malkompetento aŭ sia malsaĝeco.

“Ha!” la Ĝirafulo denove spiris. “Pagante la ĵaron!”

“Malrapide!” observis la advokato. “Ne tiom kvazaŭ ĝi estus nova, atentu!”

“Kaj kial?”

“Nu, ĉar ĝi estis rompita!”

“Rompita’? Tute ne. Nun gi estas bonorda. Eĉ pli ol bonorda, li mem diras! Kaj se nun mi denove rompas ĝin, mi ne plu povas riparigi gin. ! Ĵaro perdita, advokata moŝto!”

La advokato certigis lin, ke oni tion prikonsideros, pagigante ĝin kiom ĝi valoras en la nuna stato.

“Eĉ pli” li konsilis, “taksigu ĝin de li mem.”

“Respektoplenajn salutojn”, diris mastro Lollò, forirante kure.

Revene, je l’ vespero, li trovis ĉiujn kampulojn festantaj ĉirkaŭ la ĵaro enloĝata. Partoprenis la feston ankaŭ la gardohundo, saltante kaj bojante. Majstro Dima estis trankviliĝinta, ne nur, sed estis ĝuanta ankaŭ li pri sia bizara aventuro kaj ridis pri ĝi per la malĝoja gajo de la tristuloj.

La Ĝirafulo flankenpuŝis ĉiujn kaj enrigardis en la ĵaron.

“Ha! Ĉu vi bone fartas ene?”

“Bonege. Plezuriga malvarmeto,” respondis tiu. “Pli bone ol en mia

hejmo.”

“Mi ĝojas. Intertempe mi avertas vin, ke tiu ĉi ĵaro kostis al mi kvar uncojn, nova. Kiom vi opinias, ke ĝi valoras nun?”

“Ĉu kun mi interne?” demandis majstro Dima.

La kampuloj ridis.

“Silentu!” kriis la Ĝirafulo. “El la du, unu: aŭ via mastiko utilas al io, aŭ ĝi utilas al nenio; se ĝi utilas al nenio, vi estas trompisto; se ĝi al io utilas, la ĵaro, tia kia ĝi estas, devas havi sian prezon. Kian prezon’? Taksu ĝin vi.”.

Majstro Dima pripensis dum sufiĉe da tempo, poste li diris:

“Mi respondas. Se vi estus permesinta ĝin ripari per la nura mastiko, kiel mi volis, antaŭ ĉio, mi ne troviĝus ĉi ene, kaj la ĵaro havus pli malpli la saman valoron kiel antaŭe. Tiel misrompita kun ĉi krampaĉo. Tiel misriparita kun ĉi krampaĉoj, kiujn mi nepre devis almeti de ĉi interne, kiun valoron ĝi povus havi? Trionon de la antaŭa, se entute”.

“Triono?” demandis la Ĝirafulo. “Ĉu unu unco kaj tridek tri?”

“Eventuale malpli, certe ne pli.”

“Nu,” diris mastro Lollò. “Mi konsentas pri via vorto, do donu unu uncon kaj tridek tri.”

“Kio?” diris majstro Dima, kvazaŭ li ne komprenis.

“Mi rompas la ĵaron por vin elvenigi,” respondis mastro Lollò, “kaj vi, diras la advokato, pagos ĝin al mi laŭ tio kiom vi ĝin taksis’: unu uncon kaj tridek tri.”

“Mi, pagi?” rikanis majstro Dima. “Via moŝto ŝercas! Mi restas interne ĝis putriĝo.”

Kaj, elpoŝiginte iom pene la pipeton tartroriĉan, li ĝin ekbruligis kaj komencis fumi, elblovante la fumon tra la kolo de la ĵaro.

Mastro Lollò restis konsternita. Ĉi alian eventon, ke majstro Dima nun ne plu volas elveni el la ĵaro, nek li nek la advokato antaŭvidis. Kaj kiel oni solvu ĝin nun? Li estis ree ordononta: “La mulino!”, sed li pensis, ke jam estas vespero.

“Ha, ĉi?” li diris. “Ĉu vi volas enloĝiĝi en mia ĵaro? Atestantoj, ĉiuj ĉi tien! Li ne volas elveni, por ne ĝin pagi; mi  pretas ĝin rompi! Dume, ĉar li volas resti tie, morgaŭ mi asignos lin pro ne leĝa loĝado kaj ĉar li malebligas al mi la uzon de la ĵaro.”

Majstro Dima elblovis antaŭe alian plenbuŝon da fumo, poste respondis, trankvile:

“Tute ne. Mi volas malebligi al vi nenion. Ĉu mi estas ĉi tie por mia plezuro? Elvenigu min, kaj mi foriras volonte. Pagi… eĉ ne pro ŝerco, via moŝto!”

Mastro Lollò, pro subita ekkolero, levis kruron por doni piedbaton al la ĵaro, sed poste retenis sin; male, li ĝin ĉirkaŭbrakis per ambaŭ manoj kaj ĝin skuegis, kolertremante.

“Ĉu vi vidas, kia mastiko?” diris majstro Dima.

“Pendumindulo!” roris la Ĝirafulo. “Kiu faris la fuŝon? Ĉu mi aŭ vi? Kaj ĉu pagu ĝin mi? Mortu pro malsato tic ene! Ni vidu, kiu venkos!”

Kaj li foriris, ne pensante pri la kvin liroj, kiujn li estis ĵetinta en la ĵaron tiun matenon. Per tiuj, por komenci, majstro Dima pensis resti tiun vesperon kune kun la kampuloj, kiuj, malfruinte pro tiu stranga akcidento, restis por tranoktado en la kamparo, subĉiele, en la korto. Iu iris por manĝoaĉetado en apuda taverno. Kvazaŭ mendite, estis tia luno, ke ŝajnis ektagiĝo.

Je iu horo mastro Lollò, kiu estis irinta dormi, estis vekita de infera bruego. Li alfenestriĝis ĉe balkono de la farmo kaj vidis sur la korto, sub la luno, multajn diablojn: la kampuloj ebriaj, tenantaj sin laŭmane, dancis ĉirkaŭ laĵaro. Majstro Dima, tie ene, kantadis plengorĝe.

Ĉi-foje mastro Lollò ne povis elteni: li impete alkuris kiel furioziĝinta taŭro, kaj, antaŭ ol tiuj havis la tempon lin haltigi, per puŝego ekruligis la ĵaron suben laŭ la deklivo. Ruliĝinte, akompanate de la ridoj de la ebriuloj, la ĵaro finis sian itineron frakasiĝante kontraŭ olivarbo.

Kaj venkis majstro Dima.

El “Noveloj por tuta jaro”

tradukis Carlo Minnaja

(Heroldo de Esperanto”, 1/2007)

l La rakonto disvolviĝas en Sicilio, insulo de la Mediteraneo: tie ege ofte la personojn oni nomas laŭ kromnomoj, kutime aludantaj al iu korpa eco; verŝajne la koncerna ulo havis longan kolon.

2 Loko en Norda Sicilio.

3 Vilaĝo ĉe la norda Sicilia marbordo, pli malpli vojmeze inter Palermo kaj Messina.

4 Kutima dirmaniero, laŭ la tradicia (erara) supozo, ke alikredanoj, kiaj kutime la turkoj kompare al la italoj, blasfemas la kristanan Dion.

Respondi

Retpoŝtadreso ne estos publikigita. Devigaj kampoj estas markitaj *