Homoj

Renato Fucini

La 25-a de februaro estas la datreveno de la morto (en 1921) de la itala (toskana) verkisto kaj poeto Renato Fucini, konata ankaŭ per la anagrama pseŭdonimo Neri Tanfucio (1843-1921),
it.wikipedia.org/wiki/Renato_Fucini
fama precipe pro la aŭtobiografia libro “Le veglie di Neri. Paesi e figure della campagna Toscana” (La vesperaj vigladoj de Neri. Vilaĝoj kaj figuroj de la Toskana kamparo).
Fucini estis membro de la Itala Lingva Akademio “Crusca”, kvankam li verkis kun fortaj trajtoj de la dialekto de Pisa/ Pizo.
Mi transskribas la italan tekston kaj ĝian tradukon al Esperanto de ero (“Dolci ricordi” – Memoro pri mia patro) tirita el “Le veglie di Neri”.
La libro de Pier Vittorio Orlandini de 2008 “Literatura rigardo tra la marema Toskanlando – unua parto” dediĉas al Fucini la paĝojn 16-71; mi aldonas ĝian kovrilon.


(Sekvas traduko al Esperanto)

DOLCI RICORDI
Mio padre, medico in un comunello di montagna, guadagnava, quando io ero ragazzetto, cinque paoli al giorno, che oggi sarebbero due lire e ottanta centesimi. Coi miseri incerti di qualche consulto, di qualche operazioncella e di qualche visita fuori della condotta si può calcolare che il suo guadagno arrivasse a circa quattro lire, piuttosto meno che più. Con queste doveva mantenere decorosamente la sua famiglia, un cavallo, un servitore, e me all’Università… Vado per le leste e perché sento che il discorrer troppo mi aggraverebbe il petto e tu forse ti annoieresti.
Una sera dopo le vacanze del Natale, avevo allora diciassette anni, torno a Pisa con la mia mesata d’ottanta lire nel portafogli. Il rivedere gli amici mi mette allegria, vado a cena con una brigata di quei bontemponi, bevo, mi elettrizzo, giro cantando per le vie della città fino ad ora tarda, e da ultimo casco in una casa da giuoco, dove in un paio d’ore lascio tutta la mesata, più trenta lire di debito con un amico che me le prestò. Una piccolezza, se vogliamo, ma una piccolezza che per le condizioni della mia famiglia era grave, forse troppo grave.
Arrivato nella mia cameruccia, mi buttai sul letto, ma non potei dormire. Sbuffai, mi svoltolai continuamente senza trovar riposo. Ebbi qualche breve dormiveglia, ma fu peggio. Brillanti, assassini, miniere d’oro, coltellate, mostri paurosi, corse a perdita di fiato per deserti a perdita d’occhio, urli, fischi, imprecazioni… sognai un po’ di tutto; e finalmente un grande scossone e tanto d’occhi spalancati, grondante di sudore.
«Che si fa?», pensavo. «Chiedo a qualche amico? Scrivo a qualche parente? a mia madre? a mio…? Ah!… qui bisogna uscirne presto. Un atto di contrizione, un po’ di dramma, quattro urlacci, due tonfi, magari… e perché no? magari una fitta di scapaccioni, e tutto è finito, e non ci si pensa più.» Salto giù dal letto, mi faccio prestare pochi soldi dal primo amico mattiniero che incontro, mi rincantuccio in un vagone di terza classe, e via a casa.
Il viaggio mi fece bene. Parlai continuamente di politica, di guerra e di donne con un associatore di libri che andava a Signa, ed ebbi dei momenti nei quali, sognando sul serio gloria, armi ed amori, in faccia al mio associatore che mi guardava, stava zitto e fumava la pipa, dimenticate le mie miserie, mi sentii quasi orgoglioso d’aver anch’io la prima bravata da raccontare.
Ma quando vidi spuntare fra i boschi la torre del mio paesello, eppoi il tetto della mia casa e il fumo che usciva dalla torretta del suo cammino, la baldanza mi cadde e sentii le gambe che mi tremavano.
Quand’arrivai a casa, mio padre non c’era. Mia madre si spaventò perché, vedendomi pallido, mi credette malato.
«Non ho nulla, sto bene… proprio sto bene.»
Il suo viso si rasserenò subito e, fatta forte da questa buona certezza, ascoltò abbastanza tranquilla, mentre preparava il desinare, il racconto che le feci dal canto del fuoco, dove m’ero rannicchiato, scaldandomi alla fiamma che schioccava allegra sotto un paiolo di rape. Quando ebbi terminato:
«Figliolo!… io ti domando come si deve fare a dirlo a quell’omo!», esclamò guardandomi sgomenta. Poi dopo una lunga pausa pensosa:
«È impossibile! Come vuoi che faccia a renderti ora una mesata, se ce n’ha appena tanti per andare avanti noi?!… Trovarli!… E dopo?… Non c’è carità, in questo momento non c’è carità… Gli sta peggio quel malato e pare che vada a morire…»
Io stavo zitto a guardarla, lei si chetò.
Il tepore del mio nido, la stanchezza e il mugolìo del vento su per la gola del camino mi conciliarono il sonno e, senza accorgermene, mi addormentai col capo appoggiato sulla spalliera della seggiola.
Quando mi destai, vidi mio padre seduto dall’altra parte del focolare, che si asciugava alla fiamma i calzoni fradici di pioggia. Pareva stanco ed era pallido. Tossiva malamente ed aveva schizzi di fango fino sulla faccia.
Sentendomi muovere, alzò la testa.
«Buon giorno, babbo.»
«Buon giorno», mi rispose. E non mi disse altro.
Dopo qualche momento si alzò, disse a mia madre d’affrettare il desinare perché aveva bisogno d’escir subito, e andò in camera sua.
«Glie l’hai detto?», domandai trepidante a mia madre.
Essa mi accennò di sì.
«Che ha detto?»
«Ha domandato come stavi e s’è messo a leggere.»
Il desinare fu nero. I miei vecchi barattarono fra loro poche parole d’affarucci di famiglia, ed io, sempre aspettando una tempesta, che mi avrebbe fatto tanto bene al core per votarlo d’urli, di bile e magari di pianto; per vedere se in una sfuriata trovavo la gretola di non avere tutto il torto io, ebbi a rimanere gelidamente trafitto dalle poche parole che nel tòno usuale e quasi con amorevolezza mi rivolse mio padre.
«Beppe l’hai veduto?» (era un suo vecchio compagno di studi che io avevo sempre l’incarico di salutare quando andavo a Pisa).
«No…»
«Domattina partirai col primo treno… Ti chiamerò presto perché dovrai andare alla stazione a piedi… Del cavallo ne ho bisogno io.»
«Sì.»
Finito il desinare, andò via. Tornò a sera inoltrata, prese un boccone e andò a letto, dopo avermi fatto con gli occhi stanchi una burbera carezza.
La mattina dopo, mi svegliò alle cinque. Era buio, freddo, vento e nevicava forte. Quando uscii di camera, mia madre, già alzata, mi aspettava per dirmi addio.
«Gli ha lasciati a te i quattrini?» le domandai sotto voce.
«È là fòri che ti aspetta.»
Corsi sulla porta e alla luce della lanterna con la quale il servitore ci faceva lume, lì davanti, mio padre già a cavallo, immobile, rinvoltato nel suo largo mantello carico di neve.
«Tieni» mi disse, parlando rado e affondandomi ad ogni parola un solco nell’anima. «Prendi… Ora è roba tua… Ma prima di spenderli!… Guardami!…», e mi fulminò con un’occhiata fiera e malinconica. «Prima di spenderli, ricòrdati come tuo padre li guadagna.»
Una spronata, uno sfaglio, e si allontanò a capo basso nel buio, tra la neve e il vento che turbinava.
Renato Fucini, “Le veglie di Neri”
°°°°°
(Traduko):
MEMORO PRI MIA PATRO
Mia patro, kuracisto en malgranda monta komunumo, gajnis, kiam mi estis knabeto, po kvin paolojn tage, kiuj hodiaŭ estus du liroj kaj okdek centimoj. Kun mizeraj eksterordinaraj gajnoj de kelkaj konsultoj, de kelkaj operacietoj kaj de kelkaj vizitoj ekster ha labordistrikto, oni povas kalkuli ke lia gajno atingis ĉirkaŭ kvar lirojn, eble malpli ol pli. Per tiu ĉi mono li devis dece vivteni sian familion, ĉevalon, serviston, kaj min ĉe la Universitato.
Iam vespere, post mia Kristnaska libertempo, mi tiam estis deksepjara, mi revenis Pisa-n kun la ĉiumonata sumo de okdek liroj en la paperujo. Revidi la amikojn min gajigis: mi vespermanĝis kun aro da tiuj gajuloj, trinkis, kaj elektriĝis, vagis tra la stratoj de la urbo ĝis malfrua horo, kaj laste mi falis en luddomon, en kiu, dum paro da horoj, mi lasis la tutan monon, plie ŝuldon da tridek liroj ĉe amiko, kiu al mi ilin pruntedonis. Bagatelo, se ni volas, sed bagatelo, kiu estis grava, konsidere miajn familiajn kondiĉojn.
Kiam mi venis en mian ĉambreton, mi ĵetis min sur la liton, sed mi ne povis dormi. Spiregante, mi turnis kaj returnis min sen trovi ripozon. Mi ankaŭ iom duondormis, sed tio estis eĉ malpli bone. Briliantojn, mortigantojn, orminejojn, tranĉilbatojn, timigantajn monstrojn, spiregajn kuradojn tra okulperdigaj dezertoj, kriegojn, fajfojn, parolaĉojn, mi sonĝis iom el ĉiuj eblaĵoj, kaj finfine mi revekiĝis kun grava skuo, kaj malfermitaj okuloj, plena je ŝvito.
«Kion mi faros?» mi pensis. «Ĉu mi petos de iu amiko? Ĉu mi skribos al iu parenco? al mia patrino? al mia patro…? Ho! Ĉi tie necesas iri. Okazos penta ago, iom da dramo, kelkaj kriegoj, kelkaj bategoj, eĉ, kial ne? ankaŭ sekvo da vangfrapoj, kaj ĉio estos finita, kaj mi ne pensas plu pri tio».
Mi forsaltas el la lito, prunteprenas malmultajn monerojn de la unua amiko, kiun mi renkontas, mi rifuĝas en iun vagonon de tria klaso, kaj forkuras hejmen.
La vojaĝo min trankviligis, Mi daŭre parolis pri politiko kaj milito kun libroasociano, kiu iris al Signa, kaj mi havis kelke da momentoj, en kiuj, serioze revante gloron, armilojn kaj amojn kontraŭe al mia asociano, kiu min rigardis silentante kaj fumante la pipon, mi, forgesinte mian mizeron, malhumiliĝis, ĉar ankaŭ mi povis rakonti mian unuan lertaĵon.
Sed, kiam tra la arbaroj mi ekvidis la turon de mia vilaĝo, kaj plie la tegmenton de mia domo, kaj la fumon, kiu eliris el la tureto de ĝia kameno, la malhumileco falis kaj mi sentis tremi miajn krurojn.
Kiam mi alvenis hejmen, mia patro ne ĉeestis. Mia patrino ektimis, ĉar vidante min paliĝinta, ŝi kredis min malsana.
– Mi fartas: bone… vere… mi fartas bone.
Ŝia vizaĝo resereniĝis, kaj fortiĝinte pro tiu ĉi bona certeco, sufiĉe trankvile ŝi aŭskultis, dum ŝi pretigis la tagmanĝon, la rakonton, kiun mi faris el la fajrangulo, kie mi kaŭris, min varmigante je la flamo, kiu gaje brulis sub poto kun betoj. Kiam mia rakonto finiĝis:
– Filo!… mi vin petas, kiel oni povos diri tion al tiu viro! – ŝi ekkriis, rigardante min timege. Post longa paŭzo, pensema:
– Estas neeble! Kiel vi volas, ke nun li donu al vi monon por monato, se ni havas nur la monon necesan por vivi? Ĉu ĝin trovi? Kaj poste? Ne ekzistas ripareblo en tiu ĉi momento, ne ekzistas ripareblo… Tiu malsanulo fartas malpli bone, kaj ŝajnas, ke li estas mortonta.
Mi ekstaris ŝin rigardante silente; ŝi trankviliĝis.
La varmeto de mia nesto, la laceco kaj la blovo de la vento tra la gorĝo de la kameno inklinigis min al dormemo, kaj senkonscie mi ekdormis kun la kapo kuŝanta sur la apogilo de la seĝo.
Kiam mi ekvekiĝis, mi vidis mian patron sidanta je la alia flanko de la fajrejo; li sekigis ĉe la fajro la pantalonon banitan de pluvo. Li ŝajnis laca kaj estis pala. Li tusis malbone kaj havis makulojn de koto sur la vizaĝo. Aŭdante min moviĝi, li levis la kapon.
– Bonan tagon, patro!
Post kelkaj momentoj li leviĝis, diris al mia patrino, ke ŝi pretigu frue la vespermanĝon, ĉar li bezonas tuj eliri, kaj li iris en sian ĉambron.
– Ĉu vi diris al li la aferon? – mi demandis ektremante mian patrinon.
Ŝi kapjesis.
– Li demandis, kiel vi fartas, kaj eklegis.
La manĝado estis nigra. Miaj gepatroj interŝanĝis malmultain vortojn pri familiaferoj, kaj mi, atendante ĉiam uraganon, kiu estus bonfaronta al mia koro… restadis glacie traborata de la malmultaj paroloj, kiujn mia patro diris al mi en la kutima tono, kaj preskaŭ kun amemo.
– Ĉu vi vidis Beppe? (li estis lia maljuna stud-kunulo, kiun li komisiis al mi saluti ĉiam, kiam mi iris Pisa-n.)
– Ne…
– Morgaŭ matene vi foriros per la unua trajno… Mi baldaŭ vin vokos, ĉar vi devos iri piede al la domo… la ĉevalon mi bezonos.
– Jes.
Kiam la manĝo estis finita, li foriris. Li revenis vespere malfrue, manĝis iom, kaj iris dormi, farinte al mi per la lacaj okuloj krude severan kareson.
La postan matenon, li vekis min je la kvina. Estis mallume, malvarme kaj neĝis forte. Kiam mi eliris el la ĉambro, mia patrino, jam leviĝinta, atendis min por adiaŭi.
– Ĉu li lasis ĉe vi la monon? – mallaŭte mi demandis al ŝi.
– Li estas tie ekstere kaj vin atendas.
Mi kuris al la pordo, kaj je la lumo de la lanterno, per kiu la servisto donis al ni lumon, mi vidis, tie antaŭe, mian patron jam surĉevale, senmovan, ĉirkaŭvolvitan en sia larĝa neĝkovrita mantelo.
– Tenu – li diris al mi plugante sulkon en mia animo. Tenu… Nun ĝi estas via propraĵo… Sed antaŭ ol ĝin elspezi… rigardu min! kaj li min fulmis per fiera kaj melankolia rigardo – Antaŭ ol ĝin elspezi, memoru, kiel via patro ĝin gajnas.
Spronado, skuiĝo, kaj li malproksimiĝis kun malalta kapo en la mallumo, tra la neĝo, kaj tra turbe-blovanta vento.
Renato Fucini, trad. Guido Fachinotti (Literatura Mondo” 1935-6, p. 117-118)

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