Personaggi

Carlo Collodi

Il 26 ottobre è l’anniversario della morte (nel 1890) dello scrittore e giornalista italiano (fiorentino) Carlo Lorenzini (1826-1890), noto con lo pseudonimo Carlo Collodi

it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Collodi

Ho parlato più volte, ad esempio

www.bitoteko.it/esperanto-vivo/2018/10/26/carlo-collodi/ 

 di Carlo Collodi e del suo romanzo “Le Avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, più noto come “Pinocchio”, tradotto praticamente in tutte le lingue di cultura, compresi il latino e l’Esperanto.

Sebbene sia ritenuto un “libro per ragazzi”, “Pinocchio” non lo è affatto: sotto un aspetto leggero, contiene profonde meditazioni sulle vicende umane, non sempre giuste, e sulle contraddizioni della società.

A questo proposito, ne trascrivo un brano, in italiano e in una delle sue traduzioni in Esperanto.

Allego:

– un francobollo del 2004 della Repubblica di San Marino;

– la copertina della prima edizione di “Pinocchio” in Esperanto (1930), nella traduzione di Mirza Marchesi.


(sekvas traduko al Esperanto)

Carlo Collodi, “Le avventure di Pinocchio”, cap. XIX.

Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro, e per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.

Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.

E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:

«E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?… E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e se invece di cinquemila, ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!… Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna».

Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo… andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo.

In quel mentre sentì fischiarsi negli orecchi una gran risata: voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso Pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso.

— Perché ridi? — gli domandò Pinocchio con voce di bizza.

— Rido, perché nello spollinarmi mi sono fatto il solletico sotto le ali. —

Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose novamente ad annaffiare la terra, che ricopriva le monete d’oro.

Quand’ecco che un’altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.

— Insomma — gridò Pinocchio, arrabbiandosi — si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?

— Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.

— Parli forse di me?

— Sì, parlo di te, povero Pinocchio; di te che sei così dolce di sale da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagiuoli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.

— Non ti capisco — disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.

— Pazienza! Mi spiegherò meglio — soggiunse il Pappagallo. — Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo! —

Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non c’erano più.

Preso allora dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.  

Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì chiedendo giustizia.  

Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e sonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

— Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione. —  

Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.

E lì v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una bella vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e di velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

— Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io — disse Pinocchio al carceriere.

— Voi no, — rispose il carceriere — perché voi non siete del bel numero…

— Domando scusa; — replicò Pinocchio — sono un malandrino anch’io.

— In questo caso avete mille ragioni — disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.

°°°°°

(traduko)

Carlo Collodi, “La aventuroj de Pinokjo”, ĉap. 19-a, trad. Mirza Marchesi (1930)

Pinokjo estas ŝtel-senigita je siaj moneroj el oro,

kaj pro puno ricevas kvar monatojn da malliberigo.

La  marioneto, reveninte en la urbon, komencis nombradi la minutojn unu post la alia; kaj, kiam ŝajnis al li, ke la ĝusta tempo venis, reiris tuj sur la vojon kiu kondukis al la Kampo de la mirakloj.

Kaj dum li marŝis per rapidema paŝo, lia koro batadis forte kaj faris tik-tak, tik-tak, kiel salon-horloĝo kiam ĝi vigle funkcias.

Kaj dume li pensis en si mem:

“Kaj se anstataŭ mil monerojn mi estus trovonta sur la branĉoj de la arbo du mil da?… Kaj se anstataŭ du mil mi estus trovonta da ili kvin mil?… Kaj se anstataŭ kvin mil mi estus trovonta da ili cent mil? Ho, kia granda riĉulo, tiam, mi fariĝus!… Mi volus havi belan palacon, mil ĉevaletojn el ligno kaj mil ĉevalejojn, por povi ludi, unu kelon da siropoj, kaj librejon plenplenan je kanditaĵoj, tortoj, kukoj, migdalaĵo kaj je vaflegoj kun la kremo”.

Tiel fantaziante, li alvenis proksime de la kampo, kaj tie haltis por rigardi, ĉu hazarde li povus ekvidi ian arbon kun la branĉoj ŝarĝitaj je moneroj: sed li vidis nenion. Li faris pluajn cent paŝojn antaŭen, kaj nenio: eniris sur la kampon… ĝuste sur tiun malgrandan truon kie li estis enteriginta siajn zekinojn, kaj nenio. Tiam li iĝis pensema kaj, forgesante la regulojn de la bona edukiteco, eltiris unu manon el la poŝo kaj frotis per daŭra gratadeto sian kapon.

En tiu momento li aŭdis sibli en la oreloj laŭtan ridadon: kaj sin turnante supren, li vidis sur arbo dikan papagon kiu sin purigis, traserĉante per la beko la malmultajn plumojn kiujn li havis sur si.

“Kial vi ridas?” al li demandis Pinokjo kun voĉo koleretema.

“Mi ridas, ĉar traserĉante mian plumaron mi faris mem tikleton sub la flugiloj”.

La marioneto ne respondis. Li iris al la kanaleto kaj pleniginte per akvo la jam uzitan pantoflon, komencis denove surverŝi la humon kiu kovris la monerojn el oro.

Kaj jen, alia rido eĉ pli petolema kaj malrespekta ol la unua, aŭdiĝis en la silenta soleco de tiu kampo.

“Nu, fine”, kriis Pinokjo, koleriĝante, “ĉu oni povas scii, Papago malbone edukita, pro kio vi ridas?”.

“Mi ridas pri tiuj naiveguloj kiuj kredas ĉiujn stultaĵojn kaj falas en la kaptilon de tiu kiu estas pli ruza ol ili”.

“Ĉu eble vi parolas pri mi?”.

“Jes, mi parolas pri ci, kompatinda Pinokjo: pri ci kiu estas tiom malsprita, kiom necesas por kredi, ke oni povas semi kaj rikolti sur la kampoj la monerojn, kiel oni semas la fazeolojn kaj la kukurbojn. Iam ankaŭ mi tion kredis, kaj hodiaŭ mi prisuferas la sekvojn. Hodiaŭ (ja tro malfrue!) mi devis konvinkiĝi, ke por amasetigi honeste kelkajn spesdekojn, necesas, ke oni kapablu ilin gajni aŭ per la laboro de siaj propraj manoj, aù per la ecoj de sia propra cerbo”.

“Mi ne komprenas vin”, diris la marioneto, kiu jam ektremis pro timo.

“Paciencon! Mi pli bone klarigos”, aldonis la Papago. “Sciu do ke, dum ci estis en la urbo, la Vulpo kaj la Kato revenis en ĉi tiun kampon: ili prenis la monerojn el oro enterigitajn, kaj poste forkuris kiel la vento. Kaj tiu, kiu ilin atingus, estus lerta”.

Pinokjo restis kun la buŝo malfermita, kaj ne volante kredi je la diro de la Papago, komencis per la manoj kaj ungoj fosi la teron kiun li estis surverŝinta. Kaj fosas, fosas, fosas, li faris truon tiel profundan, ke oni estus povinta enmeti internen tutan pajlujon staranta: sed la moneroj plu ne estis.

Tiam, kaptita de malespero, li reiris kurante en la urbon kaj iris rekte al tribunalo, por denunci ĉe la juĝisto la du friponojn, kiuj estis ŝtelintaj lian monon.

La juĝisto estis simiego el la raso de la Goriloj: maljuna simiego respektinda pro sia grava aĝo, pro sia barbo blanka, kaj precipe pro siaj okulvitroj el oro, sen lensoj, kiujn li estis devigata surporti senĉese, pro inflamo de l’ okuloj, kiu lin turmentadis jam de kelkaj jaroj.

Pinokjo, antaŭ la juĝisto, rakontis zorge kaj detale la maljustegan trompon, je kiu li estis iĝinta viktimo; li donis la nomon, la antaŭnomon kaj la rekonsignojn de la rabistoj, kaj finis, petante justecon.

La juĝisto aŭskultis lin kun multa favoremo; tre vive interesiĝis pri la rakonto; ekkompatis, kortuŝiĝis; kaj kiam la marioneto havis plu nenion por diri, li etendis la manon kaj skuis la tintilon.

Ĉe tiu sonorvoko aperis tuj du dogoj vestitaj per ĝendarma kostumo.

Tiam la juĝisto, ekmontrante Pinokjon al la ĝendarmoj, diris:

“Tiu kompatindulo estis ŝtelsenigita je kvar moneroj el oro: do prenu kaj metu lin tuj en malliberejon”.

La marioneto, sentante fali sur sin tian verdikton, kiel bategon inter kapo kaj kolo, restis kvazaŭ ŝtoniĝinta kaj volis protesti; sed la ĝendarmoj por eviti senutilan perdon de tempo korkŝtopis lian buŝon kaj lin kondukis en mallumejon.

Kaj tie li devis sidadi kvar monatojn: kvar senfine longajn monatojn: kaj li estus restinta eĉ pli longe, se ne estus okazinta tre bonŝanca fakto. Ĉar oni devas scii, ke la juna Imperiestro, kiu regis en la urbo Kaptas-naivegulojn, havis grandan venkon kontraŭ siaj malamikoj, kaj pro tio li ordonis grandajn publikajn festojn, iluminojn, raketojn, vetkurojn de ĉevaloj, kaj, kiel montro de plej granda ĝojego, li volis, ke oni malfermu eĉ la malliberejojn, kaj ke oni elmetu ĉiujn malbonfarintojn.

“Se la aliaj eliras de malliberejo mi ankaŭ volas eliri”, diris Pinokjo al la karceristo.

“Vi ne”, respondis la karceristo, “ĉar vi ne estas el la estiminda aro…”.

“Mi petas pardonon”, diris Pinokjo, “mi ankaŭ estas malbonfarinto”.

“Tiaokaze vi estas milfoje prava”, diris la karceristo; kaj demetante respekte sian ĉapon por lin saluti, li malfermis al li la pordojn de l’ malliberejo kaj lasis lin forkuri.

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