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Giorno dei morti

Nella cultura italiana, il 10 agosto è strettamente legato al poeta romagnolo Giovanni Pascoli (1855-1912)
it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Pascoli
il cui padre, Ruggero, fu ucciso in misteriose circostanze, durante il ritorno a casa, il 10 agosto 1867 (giorno di San Lorenzo).
Molte poesie di Giovanni Pascoli sono in relazione con quell’assassinio; non solo le più note “X agosto”

Dieci agosto


e “La cavallina storna”,

Cavallina storna


ma anche, ad esempio, quella che trascrivo oggi, in italiano (“Il giorno dei morti”) e nella traduzione in Esperanto (La tago de l’ mortintoj).
Allego la copertina della edizione in Esperanto (Mirikoj) della raccolta poetica di Giovanni Pascoli “Myricae”, a cura di Nicolino Rossi, EVA, Venafro 2012.


IL GIORNO DEI MORTI

 

Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),

vedo nel cuore, vedo un camposanto

con un fosco cipresso alto sul muro.

 

E quel cipresso fumido si scaglia

allo scirocco: a ora a ora in pianto

sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

 

O casa di mia gente, unica e mesta,

o casa di mio padre, unica e muta,

dove l’inonda e muove la tempesta;

 

o camposanto che sì crudi inverni

hai per mia madre gracile e sparuta,

oggi ti vedo tutto sempiterni

 

e crisantemi. A ogni croce roggia

pende come abbracciata una ghirlanda

donde gocciano lagrime di pioggia.

 

Sibila tra la festa lagrimosa

una folata, e tutto agita e sbanda.

Sazio ogni morto, di memorie, posa.

 

Non i miei morti. Stretti tutti insieme,

insieme tutta la famiglia morta,

sotto il cipresso fumido che geme,

 

stretti così come altre sere al foco

(urtava, come un povero, alla porta

il tramontano con brontolìo roco),

 

piangono. La pupilla umida e pia

ricerca gli altri visi a uno a uno

e forma un’altra lagrima per via.

 

Piangono, e quando un grido ch’esce stretto

in un sospiro, mormora, Nessuno!

cupo rompe un singulto lor dal petto.

 

Levano bianche mani a bianchi volti,

non altri, udendo il pianto disusato,

sollevi il capo attonito ed ascolti.

 

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla

qualche figlio de’ figli, ancor non nato.

Nessuno! i morti miei gemono: nulla!

 

– O miei fratelli! – dice Margherita,

la pia fanciulla che sotterra, al verno,

si risvegliò dal sogno della vita:

 

– o miei fratelli, che bevete ancora

la luce, a cui mi mancano in eterno

gli occhi, assetati della dolce aurora;

 

o miei fratelli! nella notte oscura,

quando il silenzio v’opprimeva, e vana

l’ombra formicolava di paura;

 

io veniva leggiera al vostro letto;

Dormite! vi dicea soave e piana:

voi dormivate con le braccia al petto.

 

E ora, io tremo nella bara sola;

il dolce sonno ora perdei per sempre

io, senza un bacio, senza una parola.

 

E voi, fratelli, o miei minori, nulla!

voi che cresceste, mentre qui, per sempre,

io son rimasta timida fanciulla.

 

Venite, intanto che la pioggia tace,

se vi fui madre e vergine sorella:

ditemi: Margherita, dormi in pace.

 

Ch’io l’oda il suono della vostra voce

ora che più non romba la procella:

io dormirò con le mie braccia in croce.

 

Nessuno!- Dice; e si rinnova il pianto,

e scroscia l’acqua: un impeto di vento

squassa il cipresso e corre il camposanto.

 

– O figli – geme il padre in mezzo al nero

fischiar dell’acqua – o figli che non sento

più da tanti anni! un altro cimitero

 

forse v’accolse e forse voi chiamate

la vostra mamma, nudi abbrividendo

sotto le nere sibilanti acquate.

 

E voi le braccia dall’asil lontano

a me tendete, siccome io le tendo,

figli, a voi, disperatamente invano.

 

O figli, figli! vi vedessi io mai!

io vorrei dirvi che in quel solo istante

per un’intera eternità v’amai.

 

In quel minuto avanti che morissi,

portai la mano al capo sanguinante,

e tutti, o figli miei, vi benedissi.

 

Io gettai un grido in quel minuto, e poi

mi pianse il cuore: come pianse e pianse!

e quel grido e quel pianto era per voi.

 

Oh! le parole mute ed infinite

che dissi! con qual mai strappo si franse

la vita viva delle vostre vite.

 

Serba la madre ai poveri miei figli:

non manchi loro il pane mai, né il tetto,

né chi li aiuti, né chi li consigli.

 

Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:

aggiungi alla lor vita, o benedetto,

quella che un uomo, non so chi, m’ha tolta.

 

Perdona all’uomo, che non so; perdona:

se non ha figli, egli non sa, buon Dio

e se ha figlioli, in nome lor perdona.

 

Che sia felice; fagli le vie piane;

dagli oro e nome; dagli anche l’oblio;

tutto: ma i figli miei mangino il pane.

 

Così dissi in quel lampo senza fine;

Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,

dalla più grandicella alle piccine.

 

Spariva a gli occhi il mondo fatto vano.

In tutto il mondo più non era alcuno.

Udii voi soli singhiozzar lontano. –

 

Dice; e più triste si rinnova il pianto;

più stridula, più gelida, più scura

scroscia la pioggia dentro il camposanto.

 

– No, babbo, vive, vivono – Chi parla?

Voce velata dalla sepoltura,

voce nuova, eppur nota ad ascoltarla,

 

o mio Luigi, o anima compagna!

come ti vedo abbrividire al vento

che ti percuote, all’acqua che ti bagna!

 

come mutato! sembra che tu sia

un bimbo ignudo, pieno di sgomento,

che chieda, a notte, al canto della via.

 

– Vivono, vive. Non udite in questa

notte una voce querula, argentina,

portata sino a noi dalla tempesta?

 

È la sorella che morì lontano,

che in questa notte, povera bambina,

chiama chiama dal poggio di Sogliano.

 

Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi

riccioli qui, tra noi; fuori del nero

chiostro, de’ sotterranei profondi!

 

Un’altra voce tu, fratello, ascolta;

dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero;

in cui, babbo, moristi un’altra volta.

 

Parlano i morti. Non è spento il cuore

né chiusi gli occhi a chi morì cercando,

a chi non pianse tutto il suo dolore.

 

E or per quanto stridula di vento

ombra ne dividesse, a quando a quando

udrei, come da vivo, il tuo lamento,

 

o mio Giovanni, che vegliai, che ressi,

che curai, che difesi, umile e buono,

e morii senza che rivedessi!

 

Avessi tu provato di quell’ora

ultima il freddo, e or quest’abbandono,

gemendo a noi ti volgeresti ancora.-

 

– Ma se vivete, perché, morti cuori,

solo è la nostra tomba illacrimata,

solo la nostra croce è senza fiori?-

 

Così singhiozza Giacomo: poi geme:

– Quando sola restò la nidiata,

Iddio lo sa, come vi crebbi insieme:

 

se con pia legge l’umili vivande

tra voi divisi, e destinai de’ pani

il più piccolo a me ch’ero il più grande;

 

se ribevvi le lagrime ribelli

per non far voi pensosi del domani,

se il pianto piansi in me di sei fratelli;

 

se al sibilar di questi truci venti,

al rombar di quest’acque, io suscitava

la buona fiamma d’eriche e sarmenti;

 

e io, quando vedea rosso ogni viso,

e più rossi i più piccoli, tremava

sì, del mio freddo, ma con un sorriso.

 

Ma non per me, non per me piango; io piango

per questa madre che, tra l’acqua, spera,

per questo padre che desìa, nel fango;

 

per questi santi, o fratel mio, che vivi;

di cui morendo io ti dicea . . . ma era

grossa la lingua e forse non udivi.-

 

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,

oscura cosa nella notte oscura:

odo quel pianto della tomba, pianto

 

d’occhi lasciati dalla morte attenti,

pianto di cuori cui la sepoltura lasciò,

ma solo di dolor, viventi.

 

L’odo: ora scorre libero: nessuno

può risvegliarsi, tanto è notte, il vento

è così forte, il cielo è così bruno.

 

Nessuno udrà. La povera famiglia

può piangere. Nessuno, al suo lamento,

può dire: Altro è mio figlio! altra è mia figlia!

 

Aspettano. Oh! che notte di tempesta

piena d’un tremulo ululo ferino!

Non s’ode per le vie suono di pesta.

 

Uomini e fiere, in casolari e tane,

tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino

socchiude l’uscio del tugurio al cane.

 

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno

in cerchio, avvolti dall’assidua romba.

Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

 

I figli morti stanno avvinti al padre

invendicato. Siede in una tomba.

(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

 

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,

e poi furtiva esplora l’ombra. Culla

due bimbi morti sopra i suoi ginocchi.

 

Li culla e piange con quelli occhi suoi,

piange per gli altri morti, e per se nulla,

e piange, o dolce madre! anche per noi;

 

e dice:- Forse non verranno. Ebbene,

pietà! Le tue due figlie, o sconsolato,

dicono, ora, in ginocchio, un po’ di bene.

 

Forse un corredo cuciono, che preme:

per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,

hanno agucchiato sospirando insieme.

 

E solo a notte i poveri occhi smorti

hanno levato, a un gemer di campane;

hanno pensato, invidïando, ai morti.

 

Ora, in ginocchio, pregano Maria

al suon delle campane, alte, lontane,

per chi qui giunse, e per chi resta in via

 

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta,

per chi cammina, cammina, cammina,

e non ha pietra ove posar la testa.

 

Pietà pei figli che tu benedivi!

In questa notte che non mai declina,

orate requie, o figli morti, ai vivi!

O madre! il cielo si riversa in pianto

oscuramente sopra il camposanto.

 

Giovanni Pascoli

 

°°°°°

 

LA TAGO DE L’ MORTINTOJ

 

Mi vidas (kiel tago ĉi obskuras!),

mi vidas kore, vidas tombej-ronde

kun la morna cipres’, kiu ĉe-muras.

 

Kaj ĉi cipreso bruma kontraŭspitas

al la siroko: ĵus kaj jen ploronde

senfinaj nubamasoj pluvincitas.

 

Ho dom’ de mia gento, nura, trista,

ho dom’ de mia patro, muta, nura,

kien la ŝtorm’ inundas-move dista;

 

ho tombokorto, kiu vintrojn krudajn

havas por panjo mia et-statura,

mi vin hodiaŭ vidas kaj l’ apudajn

 

krizantemojn. Ĉe ĉiu rusta kruco

pendas brakume iu plektgirlando

de kie gutas larme pluvoŝpruco.

 

Eksiblas tra l’ gutado larmoplora

ekblova vent’ ĝis ĉionskua skando.

Ĉiu mortinto dormas satmemora.

 

Ne la mortintoj miaj. Strikte kunaj,

kuna la tuta familio morta,

sub la cipresoj ĝemaj kaj nubfumaj,

 

apudaj tiom kiel iam dome

(klakbatis, kiel almozul’ ĉe-porda,

la tramontano brua raŭkasone),

 

ploradas. La pupil’ humida, pia

ekserĉas jen vizaĝon ĉi aŭ tiun

kaj formas kroman larmon laŭ voj’ tia.

 

Ploradas ili, kiam kri’ eltombas

vene, murmuras kunsuspir’, Neniun!…

sombra singult’ ilian sinon rompas.

 

Eklevas ili manojn blankajn multe

al trajtoj blankaj, aŭde ploron spitan

vi kapon levu muta streĉaŭskulte.

 

Ripozas ĉiu morta; iu lulas

dorme de l’ filoj idon nenaskitan.

Neniun! La mortintoj ĝemas: nulas!

 

– Ho fratoj miaj! – Margarita diras,

la pia infanin’ kiu tombkuŝas,

el vivorevo, vintre, sin vekŝiras:

 

– Ho fratoj miaj, kiuj trinkas ĝue

la lumon, kies bril’ eterna fuŝas

al ĉi okuloj tagsoifaj plue;

 

ho fratoj miaj! en la nokt’ obskura,

kiam silento vin premadis, vanis

l’ ombro de timo plena, misaŭgura;

 

mi venadis leĝera vialiten;

tradormu! mi suflore voĉelanis:

vi dormis jam, la brakojn brustpremite.

 

Kaj nun mi tremas en la ĉerko, sola;

la dolĉan dormon perdis mi por ĉiam,

mi, eĉ sen kiso, tute senparola.

 

Kaj vi, pli junaj fratoj, jen nenio!…

Vi jam plu kreskis, dume ĉi, por ĉiam,

mi restis infanin’ timida, ĉio!

 

Vi venu dum la pluvo mutas lace,

se vin patrinis mi kaj franjo estis:

ekdiru: Margarita, dormu pace.

 

Kaj aŭdu mi de via voĉ’ la sonon

nun ke la ŝtormotondro jam forestis:

brakokruciĝe sinkos mi dormdronon.

 

Neniun! – diras ŝi kaj re ekploras:

cipreson skuas vent’ kaj pluvo plaŭdas,

furie tombokorton lavesploras.

 

– Ho filoj – ĝemas patro en la forto

de l’ pluvsiblado – vin mi plu ne aŭdas

jam ekde jaroj! Fremda tombokorto

 

eble vin gardas, eble vi alvokas

patrinon vian, nudaj frostotreme

sub la pluvnigraj sibloj, kiuj ŝokas.

 

Kaj viajn brakojn el azil’ lontana

al mi vi streĉas, kiel mi ameme

la miajn al vi montras en streĉ’ vana.

 

Ho filoj, filoj! Vin mi vidu iam!

mi dirus, ke en ĉi minuto stranga

mi vin amadis porterne, ĉiam.

 

Tiuminute antaŭ ol mi mortis,

mi tuŝis mane mian kapon sangan;

al ĉiuj, filoj, mian benon portis.

 

Mi ĵetis krion en minuto ĉi,

kaj mia koro ploris, ploris, ploris!

Kaj tiuj plor’ kaj krio ‘stis por vi.

 

Kiom da vortoj mutaj kaj senfinaj

mi diris! Kaj korŝire disangoris

sin rompe viaj vivoj malproksimaj!

 

Gardu la panjon al ĉi miaj filoj:

nek pano, nek tegmento iam manku

al ili, kaj eĉ helpo kaj konsiloj.

 

Patron, ho Dio, kiu mortigite

mortas, aŭskultu: filajn vivojn flanku

vivo, kiun vir’ rabis al mi cide (1).

 

Pardonu l’ viron, kiun mi ne konas:

se li senfilas, li ne scias, Dio…

se filojn havas li, Vi lin pardonas.

 

Ke li feliĉu, donu al li sanon,

per fam’ li riĉu, pri forges’, pri ĉio:

sed filoj miaj manĝu sian panon.

 

Tiel mi diris dum ĉi fulm-senfino,

mi vin alvokis muta kaj sensanga,

ekde l’ plej aĝa gis la etulino.

 

Forglitis el okuloj mondo vana.

Neniu restis en la mond’ lummanka.

Nur vin singulti aŭdis mi lontana. –

 

Dirinte tion li pli triste ploras;

pli grinca, pli frostpika, pli obskura

falplaŭde pluvo en tombej’ sonoras.

 

– Ne, Paĉjo, ŝi kaj ili vivas. – Kiu

parolas? Voĉo pro sepult’ susura,

voĉ’ nova sed konata estas tiu,

 

ho, Luiz’ mia, ho animo frata!

Kiel mi vidas vin tremi ĉe l’ vento,

kiu vin skuas kaj ĉe l’ pluvo bata!

 

Kiel ŝanĝita! Ŝajnas vi etulo

tremanta, nuda, plena de timsento,

kiu almozas ĉe la vojangulo.

 

– Vivas kaj ŝi kaj ili. En nokt-sombro

ĉu vi ne aŭdas voĉon arĝent-sonan

al ni portatan tra la ŝtormotondro?

 

Estas la franjo, kiu mortis diste,

kiu ĉi-nokte, knabineto bona,

el Soljan-monto vokas, vokas triste (2).

 

Ŝi vokas. Ŝiajn buklojn blondajn volas

karesi ni ĉi tie, de l’ subtero

kaj de l’ klostro for, kie ŝi solas!

 

Aŭskultu voĉon, vi ho frat’, alian

dolĉan, tristan, lontanan; jen Ruĝero,

en kiu patro mortis fojon plian.

 

Mortintoj voĉas. Koro plu eksoris,

apertis plu okul’ al kiu mortis

kaj la suferon tutan ne elploris.

 

Kaj nun eĉ tiom grinca pro la vento

ombro divida, foje al mi portis,

kiel dumviva, sonon de lamento

 

via, Johano, kiun mi lulgvidis,

regis, defendis, flegis, vin humilan,

bonan mortinte mi eĉ ne revidis!

 

Se vi povintus dum ĉi horo lasta

la froston jam forlasi maltrankvilan

ĝemante, vi vin turnus al ni hasta. –

 

– Sed se vi vivas, kial, mortaj koroj,

nur nia tombo restas sen prilarmo,

nur nia kruco restas sen la floroj? –

 

Tiel Jakob’ singultas plorekĝeme:

– Kiam sola restadis infansvarmo,

Dio nur scias kiel mi varteme

 

vin elkreskigis: se l’ humilan supon

al vi disdonis mi kaj etan panon

retenis, ĉar plej aĝa en la grupo;

 

se mi retrinkis larmon la ribelan

por ne zorgigi vin eĉ tagospanon,

se la fratploron ploris mi korŝvela;

 

se ĉe l’siblado de ĉi akraj ventoj,

ĉe la muĝad’ de l’ pluvo mi recendis (3)

la bonan flamon el la vitsarmentoj;

 

kaj mi, kiam vizaĝojn mi ekvidis

ruĝajn de la etuloj, retrasentis

ja mian froston, sed ridet’ min bridis.

 

Sed ne pro mi, mi ploras, min plorŝiras

jen la patrino en la pluv’ espera,

kaj jen la patro, kiu nin sopiras;

 

por ĉi sanktuloj, mia frat’ vivplena,

pri kiuj mortohore lango ŝvela

dike diremis, estis vi aŭdsena.

 

Mi vidas, vidas, vidas tombokorton,

obskuran aĵon en la nokt’ obskura;

mi aŭdas tiun ploron tomban, vorton

 

de okuloj pro la mort’ atentaj,

ploron de koroj, kiujn sepult’ nura

lasis, sed de l’ sufero,vivosentaj.

 

Ĝin aŭdas mi: libera ĝi forfluas,

neniu revekiĝas, noktas, l’ vento

tiom blovfortas kaj ĉiel’ tabuas.

 

Aŭdos neniu. L’ povra familio

povas plori. Neniu ĉe l’ lamento

diru: Miaj gefiloj ‘stas alio!

 

Ili atendas. Kia nokto ŝtorma

plena de trema, besta blekululo!

Survoje ne aŭdiĝas son’ paŝforma.

 

Homoj kaj bestoj, en vilaĝ’, sub grundo

silentas. Ĉio enas. La kampulo

malfermas kabanpordon al la hundo.

 

Ploradas ili. Vidas mi kaj vidos

ilin sidantaj far la ŝtorm’ volvitaj.

Atendos’ ili, plu atende sidos.

 

La mortaj filoj sin al patro svingas

jam nevenĝita. En tombfundo sidaj

(mi vidas, vidas) ili panjon ringas.

 

Ŝi al mortintoj levas la okulojn

kaj jen kaŝeme ombron ŝi esploras,

kaj surgenue lulas du etulojn.

 

Lule ŝi ploras per okuloj tiaj,

por si neniel, por l’ aliaj ploras,

kaj ploras, dolĉa Panjo! por la siaj

 

dirante: – Eble ili ne ĝisvenos.

Ambaŭ filinoj viaj, senkonsola,

nur surgenue bonon preĝalbenos.

 

Ili vestaron kudras, kiu urĝas

por aliuloj: tutatage sola

laŭ kudrotasko la suspiro skurĝas.

 

Kaj nur noktiĝe la okulojn ombrajn

eklevis ili ĉe ĝemad’ tintila;

enviis pense la mortintojn tombajn.

 

Nun surgenue preĝas al Maria

ili ĉe l’ sono alta, sonorila

por l’ alvenintoj, por iranto ĉia;

 

por kiu vagas meze de la ŝtormo,

por kiu marŝas, marŝas kaj marŝadas,

kaj ŝtono mankas al la kap’ por dormo.

 

Kompaton por la filoj ben-bezonaj!

Kaj en ĉi nokto, kiu daŭre adas,

preĝu, ho filoj mortaj, por l’ viv-konaj! –

 

Ho Panjo! La ĉiela ploroforto

sin verŝas sombre al la tombokorto.

 

Giovanni Pascoli, trad. Nicolino Rossi

(“Mirikoj, EVA, Venafro 2012)

 

 

(1) Cide = mortige; cidi = mortigi – retroderivita de la vorto suicido = sinmortigo.
(2) Soljano = itale “Sogliano”, estas urbeto sur la Apeninaj montetoj en Romanjo.
(3) Recendis = refajrigis, rebruligis – cendi = fajrigi, ekflamigi.

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