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Femminile in italiano

Cogliendo l’occasione dell’odierna Festa della donna, trascrivo un articolo del linguista Tristano Bolelli, tratto da “Qualche parola al giorno”- 1978, sulla formazione del femminile nella lingua italiana, ed allego la copertina del volume “Il sessismo nella lingua italiana”, edito nel 1999 dalla presidenza del Consiglio dei ministri.
Segnalo come, invece, sia facile formare il femminile in Esperanto: senza alcuna distinzione per quanto riguarda gli aggettivi (uguali sia per il maschile che per il femminile), e con l’aggiunta di un semplice suffisso -in per i sostantivi (ad esempio: patro = padre; patrino = madre).
Quanto al femminile degli animali, in Esperanto in via di principio il problema si risolve con il neutro, senza porsi il problema che invece ha l’italiano (perché mai la lepre, la volpe, la formica, la pantera, la iena, la capinera, sono femmine, mentre l’usignolo, il rinoceronte, lo struzzo, il pipistrello sono maschi? E che dire della tigre, che in una pubblicità di anni fa era chiamata “il” tigre, con lo slogan “metti un tigre nel motore”?).
Se proprio si ha necessità di specificare il sesso (il latte è di mucca, l’uovo lo fa la gallina, i coniglietti nascono dalla coniglia, i cagnolini dalla cagna, e così via), in Esperanto basta usare il suffisso -in, e dire quindi bovino, kokino, kunikino, hundino ecc (cioè: bov-ino, kok-ino, kunikl-ino, hund-ino).

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L’italiano distingue molto nettamente nomi, articoli, aggettivi e pronomi maschili da quelli femminili.
Quando è stato nominato ministro del lavoro una donna, sui giornali e sui quotidiani è sorto il problema: si dice ministro, ministra o ministressa? Tutto questo chiasso è in gran parte ingiustificato perché già nel passato la questione esisteva.
Nessuno ha trovato a ridire su soprano o contralto maschile riferito a donna, né sentinella, spia, guardia, recluta, guida riferiti ad uomini.
Nel latino arcaico il nome del lupo era lupus, il nome della lupa lupus femina: solo più tardi subentrò lupa che subito ebbe, come valore traslato, quello di «meretrice».
Ora se abbiamo cane e cagna, bove e vacca, cavallo e cavalla, coniglio e coniglia, per altri animali abbiamo solo una forma che può essere maschile o femminile: sciacallo, e, rispettivamente, iena. In questo caso se vogliamo specificare diremo sciacallo femmina e iena maschio.
Per tornare agli esseri umani, mi pare che regola saggia sia quella che accetta termini d’uso, Per esempio, dottoressa, come professoressa, non ha nulla di irriverente per un dottore o un professore donna. Al momento della proclamazione, la laureata si sentirà proclamare «dottore» ma poi nell’uso la mamma cercherà per il suo bambino la dottoressa così come i familiari si rivolgeranno alla dottoressa per un loro ammalato se la dottoressa avrà saputo conquistarsi la loro fiducia o avrà ottenuto un posto alla mutua.
So che in certi casi la desinenza -essa è scherzosa: così in medichessa e ministressa; ed allora sarà opportuno evitarli se si vuole essere seri; così come sarà da evitare in Toscana il termine dottora perché indica una donna saccente e sputasentenze. Ma proprio qui sorge il problema. Se ministressa è inutilizzabile, diciamo pure ministro (ministra pare da evitare, come è stato detto, per la somiglianza con minestra). E se qualcuno obietta che potremmo trovarci nella necessità di dire che il ministro ha partorito, pazienza: non diciamo forse che il soprano ha partorito? Se vogliamo specificare, aggiungeremo il nome ed ogni equivoco – se pure d’equivoco si tratta – sarà cancellato.
Ma là dove un uso si è consolidato, si potrebbe non abbandonare ed accettare senatrice, deputatessa, avvocatessa. È meglio essere su un piano di parità giuridica e morale che propugnare l’abolizione del genere grammaticale in lingue, come l’italiano, che il genere grammaticale lo hanno fra gli elementi essenziali della loro struttura.
So bene che in paesi anglosassoni, e specialmente in America, si è fatta una questione di lana caprina sull’abolizione di certe parole che sono state interpretate come un segno del violento predominio dell’uomo sulla donna. Così si è voluto sostituire il nome che indica il presidente, chairman, perché nella seconda parte di questa parola c’è man che vuol dire «uomo» e si è proposto chairperson, con sostituzione di person «persona» a man, rimanendo ovviamente inalterata la prima parte chair che vuol dire «sedia» o «seggio»: ma qualche bello spirito ha subito trovato che person finisce in son che significa «figlio» ed indica, perciò, un maschio perché figlia si dice daughter ed allora, per le donne, ha proposto di sostituire son con daughter e ne è venuta una allegra confusione.
Direi che è ridicolo voler mutare chairman, perché, anche se si tratta di una donna, sempre chairman è, con tutte le prerogative e tutti gli onori.
E in italiano? Non mi pare che sia da considerare scandaloso il fatto che si abbia una presidentessa così come si ha una poetessa accanto a un poeta, una studentessa accanto a uno studente. È vero che presidentessa era ed è usata per «moglie di un presidente» ma è semmai questo l’uso meno proprio.
L’italiano è davvero una lingua ricca e variegata e non si dovrebbe farle violenza. Si pensi che se, in generale, i nomi in -tore hanno, per il femminile, la desinenza in -trice, (imperatore/ imperatrice; attore/ attrice, ecc.) in qualche caso si ha una forma femminile in -trice e un’altra, più popolare, in -tora: smacchiatrice e smacchiatora, rammendatrice e rammendatora ma spesso le due forme tendono a differenziarsi: lavoratora è una donna che lavora molto, è una donna attiva; lavoratrice è, invece, un termine sociale e designa la donna che lavora come operaia, impiegata, ecc. Anche se nella maggioranza dei casi la lavoratrice è una lavoratora, in qualche caso può non esserlo.
L’italiano – e così molte altre lingue – sono talmente attaccate alle distinzioni di maschile e femminile che spesso hanno vocaboli diversi per i due generi: si pensi a maschio e femmina, uomo e donna, marito e moglie, padre e madre, fratello e sorella, genero e nuora, becco e capra, bue e vacca (o mucca), porco e scrofa, montone e pecora. In altri casi si hanno mutamenti meno drastici ma pur sempre consistenti: dio e dea, cane e cagna, abate e badessa, re e regina, difensore e difenditrice, diffusore e diffonditrice.
Anche là dove si ha un genere comune come in artista, violinista e farmacista o in omicida, parricida e suicida, al plurale i due generi si differenziano: artisti e artiste, violinisti e violiniste, farmacisti e farmaciste, omicidi e omicide, suicidi e suicide. Soltanto in un piccolo numero di nomi in -e che valgono sia come maschili che come femminili (nipote, insegnante, erede, consorte) il plurale è uguale: nipoti, insegnanti, eredi, consorti. In questo caso deve intervenire l’articolo per una distinzione: i nipoti e le nipoti, gli insegnanti e le insegnanti, ecc.
Chi ci ha cacciato in tutte queste distinzioni che non sembrano tanto facilmente eliminabili? In genere, si può sostenere, l’eredità latina e l’intervento del greco, non foss’altro per il suffisso femminile -essa da -issa. Ma se non ci fosse stato vivo il senso della differenziazione dei sessi, il sistema linguistico italiano non si troverebbe in uno stato così complicato e sottile. Tanto è vero che ancora oggi, di fronte all’allargarsi delle attività tradizionalmente maschili alle donne, cerchiamo di aggrapparci a modelli, con qualche dispetto di chi vorrebbe una lingua meno preoccupata del passato e più innovativa. Ma che possiamo fare se le distinzioni fra maschile e femminile non sono solo proprie della lingua letteraria ma affondano le loro radici nei dialetti e se, addirittura, come avviene nei dialetti meridionali, il maschile e il femminile non solo variano per la desinenza ma addirittura per la vocale interna? Nel sud si sente viecchiu ma vecchia, si sente piecoro ma pecora e così via.
Si tratta certamente di un fatto che trova le sue ragioni in particolari situazioni fonetiche ma che si è mantenuto come elemento di differenziazione e come tale dobbiamo registrarlo.
Tristano Bolelli (da “Qualche parola al giorno”- 1978)

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