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Ovidio

La 20-a de marto estas la datreveno de la naskiĝo (en 43 a.K.) de la latina poeto Publius Ovidius Naso (Ovidio)
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Mi jam parolis pri li la 20-an de marto 2017.

Ovidio


Hodiaŭ mi transskribas elegion (la trian de “Tristia”, kiu parolas pri la nokto de foriro al ekzilo: iu nekutima epizodo de migrado en kontraŭan direkton, de Italio al Rumanio), tradukitan de P. Silvio Ravanelli kaj publikigitan en la revuo “L’Esperanto” 1922-4 (aprilo 1922).
Ĉeestas ankaŭ la teksto en latino (laŭ la antikva skribmaniero), kun libera traduko en la itala.
Mi aldonas la rumanan poŝtmarkon de 1957 pro la dumila datreveno de la naskiĝo de Ovidio (kiu mortis en Tomis, nuntempe Constanța, Rumanio).


Tristia I,3

Cum subit illius tristissima noctis imago,
qua mihi supremum tempus in urbe fuit,
cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui,
labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.
Iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar
finibus extremae iusserat Ausoniae.
Nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi:
torquerant longa pectora nostra mora.
Non mihi seruorum, comites non cura legendi,
non aptae profugo uestis opisue fuit.
Non aliter stupui, quam qui Iouis ignibus ictus
uiuit et est uitae nescius ipse suae.
ut tamen hanc animi nubem dolor ipse remouit,
et tandem sensus conualuere mei,
alloquor extremum maestos abiturus amicos,
qui modo de multis unus et alter erat.
uxor amans flemem flens acrius ipsa tenebat,
imbre per indignas usque cadente genas.
Nata procul Libycis aberat diuersa sub oris,
nec poterat fati certior esse mei.
Quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant,
formaque non taciti funeris intus erat.
Femina uirque meo, pueri quoque funere maerent,
inque domo lacrimas angulus omnis habet.
Si licet exemplis in paruis grandibus uti,
haec facies Troiae, cum caperetur, erat.
Iamque quiescebant uoces hominumque canumque,
Lunaque nocturnos alta regebat equos.
Hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens,
quae nostro frustra iuncta fuere Lari,
“numina uicinis habitantia sedibus,” inquam,
“iamque oculis numquam templa uidenda meis,
dique relinquendi, quos urbs habet alta Quirini,
este salutati tempus in omne mihi.
Et quamquam sero clipeum Post uulnera sumo,
attamen hanc odiis exonerate fugam,
caelestique uiro, quis me deceperit error,
dicite, pro culpa ne scelus esse putet.
ut quod uos scitis, poenae quoque sentiat auctor,
placato possum non miser esse deo.”
Hac prece adoraui superos ego: pluribus uxor,
singultu medios impediente sonos.
Illa etiam ante lares passis adstrata capillis
contigit extinctos ore tremente focos,
multaque in aduersos effudit uerba Penates
pro deplorato non ualitura uiro.
Iamque morae spatium nox praecipitata negabat,
uersaque ab axe suo Parrhasis Arctos erat.
Quid facerem? Blando patriae retinebar amore:
ultima sed iussae nox erat illa fugae.
A! Quotiens aliquo dixi properante “quid urges?
uel quo festinas ire, uel unde, uide.”
A! Quotiens certam me sum mentitus habere
horam, propositae quae foret apta uiae.
Ter limen tetigi, ter sum reuocatus, et ipse
indulgens animo pes mihi tardus erat.
Saepe “uale” dicto rursus sum multa locutus,
et quasi discedens oscula summa dedi.
Saepe eadem mandata dedi meque ipse fefelli,
respiciens oculis pignora cara meis.
Denique “quid propero? Scythia est, quo mittirnur,” inquam,
“Roma relinquenda est. utraque iusta mora est.
uxor in aeternum uiuo mihi uiua negatur,
et domus et fidae dulcia membra domus,
quosque ego dilexi fraterno more sodales,
o mihi Thesea pectora iuncta fide!
Dum licet, amplectar: numquam fortasse licebit
amplius. In lucro est quae datur hora mihi.”
Nec mora, sermonis uerba inperfecta relinquo.
Complectens animo proxima quaeque meo.
Dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto,
stella grauis nobis, Lucifer ortus erat.
Diuidor haud aliter, quam si mea membra relinquam,
et pars abrumpi corpore uisa suo est.
Sic doluit Mettus tunc cum in contraria uersos
ultores habuit proditionis equos.
Tum uero exoritur clamor gemitusque meorum,
et feriunt maestae pectora nuda manus.
Tum uero coniunx umeris abeuntis inhaerens
miscuit haec lacrimis tristia uerba meis:
“non potes auelli. Simul hinc, simul hibimus:” inquit,
“te sequar et coniunx exulis exul ero.
Et mihi facta uia est, et me capit ultima tellus:
accedam profugae sarcina parua rati.
Te iubet e patria discedere Caesaris ira,
me pietas. Pietas haec mihi Caesar erit.”
Talia temptabat, sicut temptauerat ante,
uixque dedit uictas utilitate manus.
Egredior, siue illud erat sine funere ferri,
squalidus inmissis hirta per ora comis.
Illa dolore amens tenebris narratur obortis
semianimis media procubuisse domo:
utque resurrexit foedatis puluere turpi
crinibus et gelida membra leuauit humo,
se modo, desertos modo complorasse Penates.
Nomen et erepti saepe uocassi uiri,
nec gemuisse minus, quayn si nataeque uirique
uidisset structos corpus haber, rogos,
et uoluisse mori, moriendo ponere sensus,
respectuque tamen non periisse mei.
Viuat, et absentem, quoniam sic fata tulerunt.
Viuait ut auxilio subleuet usque suo.

P. Ovidius Naso

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Tristia I, 3
www.antiqvitas.it/doc/doc.ovid.Tr1.htm

Quando mi torna alla mente l’immagine tristissima di quella notte in cui furono per me gli ultimi istanti in città, quando ripenso alla notte in cui lasciai tante cose a me care, anche ora una goccia scende dai miei occhi. Ormai stava per spuntare il giorno in cui Cesare aveva ordinato che io mi allontanassi dagli estremi confini dell’Ausonia: non c’erano stati né tempo né animo di preparare quanto bastava le cose adatte: il mio cuore era rimasto intorpidito per il lungo indugio. Non mi diedi cura di scegliere i servi, un compagno di viaggio, né la veste o i mezzi adatti ad un esule. Mi stupii, non diversamente da chi, colpito dalla saetta di Giove, vive ed è all’oscuro della sua stessa vita. Tuttavia appena lo stesso dolore rimuove questa nube dalla mia mente, e quindi i miei sensi si riebbero, mi rivolgo per l’ultima volta sul punto di partire agli amici tristi, che dai molti che erano prima erano uno o due. Mia moglie piena di amore mi teneva mentre piangevo ella stessa piangendo più abbondantemente, mentre una pioggia di lacrime cadeva ininterrottamente sulle guance che non lo meritavano. Mia figlia era molto distante presso le coste libiche e non poteva essere informata del mio destino. Dovunque guardassi, risuonavano pianti e gemiti, ed all’interno della casa c’era l’aspetto di un funerale rumoroso. Donne, uomini e persino i servi si lamentano come per il mio funerale, e nella casa ogni angolo ha lacrime. Se è lecito usare grandi esempi per le piccole cose, questo era l’aspetto di Troia, quando fu catturata.
Ormai andavano spegnendosi le voci degli uomini e dei cani, e la luna alta conduceva i cavalli della notte. Io guardandola e scorgendo il Campidoglio al suo chiarore, che invano fu vicino alla mia casa, dico: O dei che abitate nelle case vicine, e templi destinati ormai a non essere più rivisti dai miei occhi, e dei che devo abbandonare, che l’alta città di Quirino possiede, ricevete il mio saluto per sempre! E benché imbracci lo scudo troppo tardi dopo le ferite, tuttavia sgombrate dall’odio quest’esilio; dite all’uomo celeste quale errore mi trasse in inganno, affinché non pensi che si tratti di un errore volontario al posto di uno sbaglio, affinché anche l’autore della pena sia persuaso di quello che voi sapete: se il dio si placa, posso non essere misero.
Con questa preghiera io resi grazie agli dei, con ancora di più mia moglie, mentre il singhiozzo troncava a metà le parole. Poi ella coi capelli sparsi davanti ai Lari prostrata toccò con la bocca tremante i focolari estinti e riversò molte parole verso i Penati insensibili destinate a non avere alcun effetto su un uomo ormai perduto.
E la notte che volgeva al termine negava ogni indugio ormai e l’Orsa Maggiore si era girata sul suo asse. Cosa avrei dovuto fare? Ero trattenuto da un dolce amor di patria: ma era quella l’ultima notte per l’esilio imposto. Ah! Quante volte dissi a qualcuno che mi metteva fretta: “Perché mi forzi? guarda da dove mi affretti a partire, o dove ad andare!”.
Ah! Quante volte ho mentito dicendo di avere un’ora prefissata che fosse adatta al viaggio che dovevo intraprendere. Tre volte toccai la soglia, tre volte fui tratto indietro, ed il mio stesso piede era tardivo assecondando l’animo. Spesso, dopo aver detto addio, di nuovo dissi molte parole e come sul punto di andare diedi gli ultimi baci. Spesso diedi le medesime raccomandazioni ed ingannai me stesso, guardando coi miei occhi le persone amate. Infine dico: “Perché m’affretto? È la Scizia dove siamo mandati, devo lasciare Roma: entrambi gli indugi sono giusti. Mia moglie mentre è in vita mi è negata per sempre mentre sono vivo, e la casa ed i cari componenti della casa sicura, ed i compagni che amai come fratelli, oh cuori a me giunti con fede tesea! Finché è lecito, che io vi abbracci, mai più forse sarà lecito. È un guadagno per me ogni momento che mi è concesso”.
E non è più possibile indugiare, lascio le parole del discorso incompiute, abbracciando tutte le cose più vicine al mio animo. Mentre parlavo e piangevamo, Lucifero, stella funesta per noi, era sorto nitidissimo nel cielo alto. Mi stacco non diversamente che se lasciassi le mie membra e mi sembrò che una parte di me si staccasse dal suo corpo. Così si dolse Mezio, allorché ebbe come vendicatori del tradimento cavalli girati in sensi opposti. Allora veramente esplode il clamore ed il pianto dei miei e le mani meste battono i petti nudi. Allora veramente mia moglie, trattenendomi per le spalle mentre me ne andavo, mescolò queste tristi parole alle mie lacrime: “Non puoi essermi strappato: insieme qui, insieme partiremo – disse -: ti seguirò e sarò esule da moglie di un esule. Ed anche per me è aperta la via dell’esilio, anche me può accogliere quell’estrema regione: mi aggiungerò come piccolo carico alla nave profuga. L’ira di Cesare ordina che tu parta dalla patria, a me lo ordina la pietà, questa pietà sarà per me Cesare”.
Tali cose tentava, così come ne aveva tentate prima e a malapena si arrese, indotta dall’utilità. Parto, o piuttosto quello era un essere portato alla sepoltura senza funerale, trasandato, coi capelli spioventi sul volto ispido. Si dice che ella, resa folle dal dolore, fosse caduta semisvenuta in mezzo alla casa e, come si riprese, imbruttiti i capelli con la polvere, sollevò le membra gelide da terra e invocò ora sé, ora i Penati abbandonati e più volte il nome dell’uomo strappatole, e non gemette di meno che se avesse visto i roghi innalzati avere sopra i corpi della figlia e del marito, e avrebbe voluto morire, e nel morire perdere i sensi e tuttavia non si uccise per rispetto mio. Viva e, perché il destino volle così, viva e mi sostenga mentre sono assente lontano con il suo aiuto.
P. Ovidio Nasone

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ELEGIO 3-A

Kiam malĝojegan mi ekpensas la scenon de l’ nokto
kiu en Urbo estis tempo lastega mia;
kiam pensas la nokton, en kiu ĉion karan mi perdis,
el miaj okuloj nun ankaŭ larmo fluas.
Estis la taglumo jam proksima, en kiu Cezaro
estis ordoninta fikse foriron mian.
Nek saĝo, nek tempo sufiĉaj estis estintaj
por bone pretigi aĵon necesan ĉiun.
Sensentiĝis mia kor’ pro atendado la longa,
nek pri la servontoj havis mi zorgon ian,
nek pri akompanont’, pri mono aŭ vesto pli taŭga,
mi kiu patrujon estis lasonta tuje.
Nek malpli miriĝis mi, ol kiu frapita de Zeŭso
per fulmoj, li vivas mem ne sciante tion.
Tiun nubon tamen kiam mem forŝovis doloro,
kaj sentoj revenis normaliĝinte fine,
mi lastan fojon malĝojege salutas amikojn,
kiuj malmultiĝis, ha: bedaŭrinde troe!
Edzin’ amplora ploranton pli forte tenadis,
senĉese sur vangojn dum pluvo larma falas.
Estis en Afriko malproksime vivanta filino,
kaj ne sciiĝi povis ŝi pri fatalo mia.
Kie ajn vi vidas, ĉie plor’ kaj ĝemado sonadas:
ŝajnas en la domo tute funebra bruo.
Vir’ kaj virin’ kaj la sklavaro mian morton funebras:
havas de la domo larmojn angulo ĉiu.
Se oni permesas grandegan ekzemplon uzadi,
ĉi tio sieĝe Trojo kaptata ŝajnis.
Kaj jam silentadis tute voĉoj la homaj kaj hundaj,
kaj noktajn ĉevalojn regis la alta luno.
Ĉi tiun vidinte kaj luksegan poste Reĝejon,
kiu al mia vane estas apuda domo,
mi diras: «Diaĵoj enloĝantaj apudan Domegon,
de mi neniam templo vidota plue,
kaj dioj lasotaj, kiujn havas la urbo Kvirina,
estu salutitaj por l’ estonteco ĉiam!
La ŝildon kvankam malfrue post vundoj mi prenas,
ĉi tiun forkuron senmalamigu tamen;
rakontu al divir’, kia min trompegis eraro,
por ke li ne ŝatu nuran eraron krimo;
ke kion vi scias, tiel ankaŭ sentu punito:
mi nek mizera estos, se repaciĝas dio».
Per tiu ĉi preĝo mi petis, sed per pluaj edzino:
dume la singulto ŝian rompadis voĉon.
Ŝi antaŭ doma diar’ kun tuta l’ hararo senorda
la jam senluman treme fajrejon kisis,
multajn eldirante vortojn la tuta kontraŭ diaro,
ne valoriĝontajn por la plorata viro.
Sed jam plu tempon nokto trorapida ne donis
kaj la ĉiela estis jam turniĝinta ĉaro.
Kion farus de la dolĉa patruj’ mi tenata de l’ amo?
De la forkuro fiksa estis la lasta nokto!
Ha! kiomfoje diris mi al rapidiganto foriri:
De kie, aŭ kien min rapidigas, vidu!
Ha! kiomfoje ĉiun mi trompis pri l’ horo decida,
kiu estos fine por la foriro ĝusta!
La sojlon mi trifoje tuŝis kaj trifoje turniĝis:
ĉar, la animo kiel, iri rifuzas kruroj.
Ofte mi salutis, sed ree multege parolis,
kvazaŭ forironta lastajn donante kisojn.
Ofte samajn donis mi avizojn, sed revidante
la karajn trezorojn min mem mi trompis ree.
Fine kial mi rapidegas? Scitujo vidota,
estas lasota Romo: estas duflanke prave!
Vivan la edzinon eterne al viro vivanta
oni deŝiregas kun domanar’ la dolĉa,
kun tiuj kunuloj, kiujn fratamege mi amis:
Ho! gluiĝintaj koroj kvazaŭ Tezeafide!
Dum oni permesas, ilin mi ĉirkaŭprenas, neniam
eble plu mi povos: ĉi tiu horo mia!
La temp’ rapidegas; vortojn nefinitaj mi lasis,
en la animo mia karan fermante ĉion.
Dum ni priparolas plorante, stel’ tre hela Venuso
naskiĝis diri lastan venintan tempon.
Disŝirata estas mi kvazaŭ lasante la membrojn:
fakte ŝirata esti part’ de la korpo ŝajnis.
Tiel Mecjo ŝirata ploris, kiam male tirante
juste la ĉevaloj venĝis perfidon lian.
Sed tiam leviĝas krioj kaj ĝemoj de l’ gekaruloj:
la nudajn brustojn manoj malgaje frapas.
Ĉirkaŭprenante l’ edzin’ malespere la foriranton,
malĝojajn dirojn miksis kun larmoj tiel:
«Oni ne ŝirigos vin: kune ha! kune ni iros!
mi sekvos vin kaj estos de l’ ekzilit’ la ino.
Via voj’ estas mia; kaj havos min tero lastega;
min bark’ ekziliga ŝarĝon malgrandan portos.
Ke vi la patrujon forlasu Cezara kolero
ordonas, sed estos mia Cezaro l’ amo».
Ŝi tiel tentadis, kiel estis antaŭte tentinta:
kaj pro la estonta nur utileco ĉesis.
Eliras kvazaŭ mi portata nemorta tombejen,
kun hirta l’ hararo sur la vizaĝ’ senorda.
Oni diras ke pro grandega blindiĝinte doloro
ŝi duonmortinta meze de l’ domo falis;
ke kiam leviĝis polve malpuriginte l’ hararon,
kaj malvarmajn fine membrojn de tero levis,
jen ploris sin, jen la doman ploregis diaron,
ofte vokante nomon de la ŝtelita viro:
nek malpli ĝemegis, ol ŝi stiparon brulantan
estus vidinta preta por la filin’ kaj viro;
kaj deziregis morti, mortante demeti la sentojn,
kaj ŝi ne tamen mortis pro l’ ampripenso sia.
Vivu, kaj mistera kial volis tiele fataro,
vivu, forestantan helpkonsoladu viron.

Ovidio, trad. P. Silvio Ravanelli
(“L’Esperanto” 1922-4, p. 64-66)

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