Personaggi

Carlo Bertolazzi

Il 2 giugno è l’anniversario della morte (nel 1916) dello scrittore, commediografo e giornalista italiano (lombardo) Carlo Bertolazzi (1870-1916),
it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Bertolazzi
conosciuto soprattutto per opere in dialetto milanese, in particolare la commedia “El nost Milan” (La nostra Milano), riportata in scena da Giorgio Strehler negli anni Cinquanta del secolo scorso, e recentemente riproposta al pubblico per la sua trama sempre attuale: la divisione tra “la povera gent”, che fatica ad arrivare alla fine del mese, e “i sciori”, i ricchi che detengono gran parte della ricchezza.
Trascrivo, nell’originale italiano e nella traduzione in Esperanto, una delicata novella, “Senz’arrosto”; dalla sua lettura, si potrà capire perché, quale illustrazione, ho scelto un francobollo svizzero del 2010 con una mite capretta.
Anche se si tratta di uno scrittore “minore”, la novella può essere letta con gusto, sia nell’originale (dotato di una coinvolgente vivacità), sia nella traduzione (ammirevole nella sua adeguatezza, tenuto conto che risale a quasi un secolo fa, quando l’Esperanto era agli albori, e non c’erano ancora a disposizione ampi vocabolari e sufficienti modelli di riferimento).


SENZ’ARROSTO
di Carlo BERTOLAZZI

Che brutta Pasqua! Al contrario degli altri anni, quella sera nella casa patriarcale di Giovanni Moltacorda, fittabile alla cascina Benpensata, il pranzo, di solito così allegro e giocondo, era stato il pranzo del malumore.
Sfido io! Quando il vecchio papà Giovanni trovava a ridire su qualche cosa, era finita! Non aveva riguardi per nessuno, né per i figli, né per i nipoti, né per i generi, né per le nuore.
Il padrone di casa alla fin fine era lui. Il capo della “sacra famiglia” era lui. Poteva quindi imporre la sua volontà ed anche i suoi malumori, no?
Ma che diamine era successo quella sera? Un fatto ben grave.
Papà Giovanni borbottava ormai da un’ora:
– Domando io! Una Pasqua senza l’arrosto di capretto. Con tante donne in casa. Donne che pretendono di saperla lunga. Sì! Bel sapere! Di lungo, non hanno che la lingua!
E le donne di servizio che ci stanno a fare? Tutto il giorno con le mani alla cintola. E la fattoressa? E il guardiacaccia? E il camparo? Tutti fannulloni. Possibile che nessuno della casa avesse pensato a provvedere il capretto? Santo cielo! Lo sapevano pure ch’egli ci teneva alla tradizione!
A Natale, risotto, tacchino e panettone di Milano. Al primo dell’anno, salato e la torta tradizionale con tanto di fava. Alla Pentecoste gli agnolotti in brodo, e a Pasqua le uova con le olive e l’arrosto di capretto. Non c’era tanto da ridere. Bisognava rispettare le vecchie usanze, altrimenti dove si andava a finire? Addio famiglia patriarcale, addio unione, addio forza!
Fare delle novità? Modernizzare? Sì, per andare in rovina. Si doveva fare quello che i vecchi avevano fatto sempre, Tanti pasticcetti, perché? e il pudding e le salsette alla francese? Roba che guastava lo stomaco e toglieva tutta la poesia di certe giornate di festa? Uff! proprio vero: non c’era più religione, non c’era più sentimento, più niente.
E tòm tòm e tòm tòm…. il borbottìo di papà Giovanni continuava come se in cucina avessero messo a bollire delle castagne.
Povera signora Matilde! La moglie, si sa, era quella che più ne soffriva. La poverina, una vecchietta tutta pelle e tutta occhiali sul naso, era sempre là, seduta vicino al consorte brontolone, rassegnata a sentire ed anche a dare ragione. Ma gli altri?
Oh! Gli altri, quella sera, vista la mala parata, erano scomparsi. Ad uno ad uno, alla chetichella, in punta di piedi, avevano riparato in un’altra sala e là raccolti ridevano, di soppiatto, del vecchio Giovanni e delle sue fisime.
Intanto mamma Matilde cercava di calmare le ire del nume.
– Andiamo, Giovanni, non prendertela tanto a male: sì, hai ragione. È stata una dimenticanza; ti do parola, un cosa simile non accadrà più!
– Se capitasse… guai! – aveva esclamato con voce cupa il signor Giovanni. – Per l’anno venturo, ascoltami bene, ne do l’ordine formale sin d’ora; sei mesi avanti acquisteremo un capretto, così per la festa di Pasqua non mancherà l’arrosto. Ho detto! e basta!
E su quell’ “ho detto e basta!” il vecchio fittabile si era alzato dalla sua poltrona, aveva preso un lume e, brontolando ancora fra i denti, si era recato a dormire. La sua giornata era finita.
***
L’ordine era stato formale e preciso.
Sei mesi prima di Pasqua, il caprettino era acquistato. L’arrosto era assicurato.
Quel caprettino era davvero curioso: tutto bianco, con una macchia nera sulla fronte, precisamente sopra l’occhio destro; un musetto roseo, lungo, affilato; la bocca aggraziata; una fila di bei dentini che parevano d’avorio; le orecchie corte aguzze; due occhi azzurri come il cielo; le due zampine davanti agili e delicate con movenze gentili da gattina innamorata; infine una piccola coda corta che finiva con un piumino simile ad un batuffolo di bambagia.
Quando il caprettino teneva la testa diritta, col musetto in alto, socchiudendo di tanto in tanto l’occhio destro, assumeva un’aria così scaltra e birichina che faceva ridere. Quella macchia nera a sghimbescio, quello strizzare dell’occhio, quell’agitarsi del codino avevano un certo non so che di comico che piaceva; dall’altra parte lo sguardo era così dolce e malinconico che destava un vero senso di commozione. Insomma quel caprettino bisognava amarlo ad ogni costo.
Alla cascina Benpensata l’arrivo del capretto fu un avvenimento. Non vi parlo dei nipotini di papà Giovanni! Una festa! Un delirio! Gigetto, appena lo vide, esclamò:
– Oh bello, ecco Caprin!
Caprin? Si trovò che quello era un bel nome, e la bestiola fu così battezzata. Papà Giovanni, soltanto lanciò una occhiata diffidente:
– È un po’ magro – disse – bisognerà ingrassarlo, altrimenti a Pasqua rosicchieremo delle ossa!
Ingrassarlo? Figurarsi! Otto giorni dopo l’acquisto, Caprin era diventato il padrone della cascina. Tutti i buoni bocconi erano per lui.
In casa, sotto i portici, nei cortili, nelle stalle, dappertutto, una voce sola:
– Caprin! Caprin! Caprin! – Tutti lo chiamavano, tutti lo volevano.
Caprin però non aveva preferenze. Dove c’era un pezzetto di zucchero da gustare, dove lo attendeva una carezza, egli era là, di corsa, saltellante, vivace, allegro, gentile. I bambini ne facevano di ogni colore: giocavano, ridevano, si rotolavano per terra con lui. Un vero compagno, un amico, un fratello.
E quante cose aveva già imparato!
– Caprin! qua la zampa!
E Caprin con un grazioso movimento offriva la zampina.
– Caprin! al salto!
E Caprin faceva la capriola.
– Caprin! Ora ti uccido! Pum! Morto!
E Caprin si buttava a terra, disteso, socchiudendo gli occhi.
Al mattino, chi suonava la sveglia? Era Caprin. Egli entrava in tutti le camere. D’un salto era sul letto, si avvicinava al dormiente, lo urtava con la testa, lo toccava con la zampina. Pareva dicesse:
– Su dormiglione! Svegliati! È tardi, sai?
Nelle giornate piovose se ne rimaneva in casa, accovacciato ai piedi della padrona. Era una gioia per la signora Matilde tenerselo vicino, accarezzarselo proprio come un altro figliuolo. Chi non amava Caprin?

***

Sei mesi son molti, ma il tempo vola, purtroppo! L’inverno era finito. Fiorivano le rose. La primavera era splendida. La campagna attorno alla cascina Benpensata rideva tutta sotto un cielo purissimo, accarezzata dalle dolci brezze di marzo. La natura ritornava alla vita, tutto sembrava avvolto da una folata di gioconda poesia. Le persone soltanto pareva non partecipassero a quel risveglio, a quella gioia primaverile.
Perché?
Pasqua si avvicinava. Caprin doveva morire! Doveva morire? Certo. Era il patto. Lo sapevano tutti, dalla vecchia signora Matilde all’ultimo contadino della cascina; eppure nessuno di loro voleva parlarne per primo. Pareva fosse un mistero, un’angoscia segreta dell’anima di tutta quella buona gente.
Caprin? Con quel musetto, con quegli occhi dolci e languidi, con quelle zampine gentili, doveva essere sacrificato, brutalmente sacrificato sull’altare della tavola.
L’avevano acquistato appositamente. L’avevano nutrito, accarezzato appunto per averlo più grasso, più saporito. Non era stato un tradimento continuo?
Tante cortesie, tanti buoni bocconi, tante moine, perché? Per rendere più appetitoso il piatto di Pasqua! Come sono vili ed egoisti gli uomini! Migliori le bestie, mille volte! Più sincere, più buone.
Ah, se non ci fosse stato papà Giovanni! si sarebbe potuto modificare, dare uno strappo a ciò che s’era convenuto. Ma con quell’uomo ostinato e terribile, chi poteva aver tanto coraggio da proporre la salvezza di Caprin?
Venne il giorno tremendo. La famiglia Moltacorda era tutta riunita nel tinello per il solito pasto mattinale. Papà Giovanni ad un tratto uscì a dire:
– E così, figlioli? Quando si ammazza questo capretto? A Pasqua non mancano ormai che dieci giorni!
La proposta, sebbene preveduta, sebbene attesa da tutti con ansia e con terrore, giunse come inaspettata. Fu un fulmine a ciel sereno.
La conversazione era troppo penosa. La signora Matilde volle troncarla:
– Va bene! Va bene! Domani!
E venne il domani.
– Ammazzato il capretto?
Come era ostinato papà Giovanni!
– Domani! Domani!
Ma anche domani, Caprin era vispo quanto mai.
Papà Giovanni questa volta cominciò a gridare:
– Come va questa faccenda? Ancora il capretto vivo? Avevo ordinato di ammazzarlo! Quando si vuol aspettare? Quando saremo alla vigilia e non avremo più tempo?
La signora Matilde bruciò le ultime cartucce. Arditamente propose di acquistare dell’altro capretto e lasciare che Caprin corresse libero nei campi. Via, doveva averla capita anche lui, a quella bestiola si erano affezionati tutti alla cascina! Per i nipotini era un trastullo, una compagnia.
Tutto fu vano: Papà Giovanni non volle sentire ragioni.
Mantenere un altro animale. Sì, con le annate così scarse! E poi! Perché si erano cercati dei sotterfugi per tenerlo in vita questo caro Caprin? Oramai c’entrava anche il puntiglio. I nipotini si sarebbero divertiti con le bambole e coi pupazzi. Niente! Caprin doveva morire!
– Lorenzo, presto, va’ in dispensa e scanna quel capretto!
Lorenzo, il figlio maggiore, fu pronto a parare la botta.
– Non posso, papà. Ho già attaccato il biroccio e devo trovarmi in paese con un mediatore. Ho un appuntamento.
– Allora tu, Bernardo.
Bernardo fu più sincero:
– Papà, prendi chi vuoi, ma non dare a me un incarico simile.
– Come, ti rifiuti?
– Cosa vuoi? Ho preso ad amarla quella bestia… sarà una grulleria, ma tanto è più forte di me… Povero Caprin!… No, no… io no!
Papà Giovanni cominciava a sbuffare.
– Dov’è il camparo?
E il camparo comparve.
– Presto! Prendi Caprin: va’ in dispensa e scuoialo!
Il camparo prese Caprin fra le braccia, andò in dispensa e vi si chiuse dentro. Tutti quelli di casa intanto si erano rifugiati nelle loro stanze. A far che? Io non saprei; solo posso dirvi che più tardi, quando uscirono, molti avevano gli occhi gonfi.
Passò un’ora.
Papà Giovanni era solo, nel suo studiolo, intento a far conti.
Ad un tratto la porta si aperse.
– E’ permesso?
– Chi è?
– Sono io. – era il camparo.
– Oh sei tu, Bertoldo? Hai fatto quello che t’ho ordinato?
– Ah, signor padrone!
– Che c’è?
– Ah, signor padrone!
– Avanti…
– Ah, signor padrone!
– In malora! Se non ti spieghi…
– Quando devo dirla schietta… io no ho avuto il coraggio!
– Anche tu? Ma v’ha stregati tutti quel maledetto?
– Ah, signor padrone!
– Va’ al diavolo anche tu col tuo signor padrone!
– Se provasse! Non si può… fa certi occhi!
– Sapete che v’ho da dire? Che siete tutti quanti delle femminette, dei conigli, dei buoni a nulla!
– Creda… non si può… se provasse…
– Sicuro che proverò. E vi farò anche vedere che un uomo non deve avere tante malinconie per la testa.
E dette queste parole, papà Giovanni uscì infuriato.
Caprin come al solito, giocava nel cortile.
– Ah sei qui, lazzarone furfante? Andiamo… Vieni… To’… Caprin… Caprin…
E Caprin ubbidiente e rispettoso, saltellando, col musetto in alto, dimenando il codino, seguì il padrone nella dispensa.
***
Papà Giovanni aveva fretta. Nella dispensa era solo. Molto meglio! Non vi sarebbero state tante smorfie, tanti sdilinquimenti di donna!
Oh per Diana, avrebbe fatto vedere lui come si eseguono certi ordini senza tentennare, senza dubitare, a colpo sicuro.
Aprì una cassapanca. Ne levò un coltellaccio enorme, lungo e affilato.
– Qua… vieni qua… galantuomo… La vedi la ghigliottina?
E così dicendo, papà Giovanni agitava in alto il suo coltello.
Caprin alzò il bel musetto roseo e guardò. A dirla schietta, pareva non desse una grande importanza alla cosa, perché diede una dondolatina con la testa, poi alzò la zampina destra, annaspando l’aria!
– Quanto sei buffo! Mi fai ridere davvero con quel muso.
Si sedette, poi riprese:
– Lo sai che fra poco, là, sarai morto?
Alla parola “morto”, Caprin sembrò ricordasse il suo gioco preferito. Non stette in forse, si lasciò cadere a terra disteso, socchiudendo gli occhi.
– Giochi, anche?! Hai un bel coraggio! Bravo!
Ma Caprin non si muoveva.
– Ho capito… tu vorresti girare la situazione e cavartela a buon mercato con qualche scherzetto… Eh sì, caro! A me non la si fa!… Animo dunque… vieni qua… Caprin! To’…
Caprin ubbidì, senza esitare, alla chiamata. Quando fu vicino, si rizzò col corpo ed appoggiò le sue zampine sulle ginocchia del suo carnefice.
Nella dispensa si fece un silenzio di morte. La destra che brandiva il coltello si alzò. In quel momento Caprin appoggiò il musetto roseo sulla mano sinistra di papà Giovanni e senz’altro cominciò a lambirla con la lingua, baciandola.
Gli occhi del vecchio fittabile si incontrarono in quelli del caprettino.
Lo sguardo di Caprin era dolce, era pieno di malinconia e di bontà. Sembrava una carezza.
Papà Giovanni sentì quella carezza. Un brivido gli corse per le ossa. Tremò ed il coltello cadde a terra.
No, non era possibile.
***
Quando papà Giovanni uscì dalla dispensa, trovò Matilde che lo aspettava.
– E così – domandò ansiosa la buona signora – hai proprio voluto?…
Non poté finire: Caprin più allegro e vispo di prima correva già per il cortile.
– Eccolo! Eccolo! Non l’hai ammazzato? Bravo! Bravo!
– No! Non l’ho ammazzato!
– Lo volevo dire io! Tu sei tanto buono e non potevi…
– Ma che buono! non voglio che tu creda che a me sia mancato il coraggio come a tutti i conigli della mia famiglia! Non crederai questo, spero, Altrimenti ti faccio…
La signora Matilde non gli diede il tempo di finire la frase.
– No! no! per carità! Ti credo! Ti credo!
– L’ho lasciato vivere perché… perché… perché era inutile… perché non serviva.
– Vero? Così si accontentano i bambini, e poi il capretto per l’arrosto di Pasqua lo possiamo prendere dal macellaio.
– Ma che bambini! Ma che macellaio! Volevo proprio darla vinta ai bambini, io!
– Come? Si dovrà pure…
– Che cosa? Prendere dell’altro capretto?
– Già!
– Ma non l’hai ancora capita che se volevo mangiare l’arrosto, mi sarei servito di Caprin? Gli è che…
E qui papà Giovanni si trovò un po’ impacciato a proseguire. Per la prima volta, nella sua vita, era costretto a mentire sfacciatamente, a sua moglie. Ma, tanto, bisognava uscirne con onore.
Si fece coraggio e riprese:
– Gli è che quest’anno ho deciso di… di… cambiare! Sicuro! Sono stufo! Oh, questa è curiosa! Non ho forse il diritto di essere stufo?
– Tu?
– Io… io… Ne ho abbastanza del capretto… Che si debba sempre il capretto arrosto a Pasqua? Perché? Forse perché lao mangiavano mio padre e mio nonno? Bella ragione! Allora dovrei andare a Milano a piedi perché i nostri vecchi non avevano la ferrovia. Ti pare?
– Sì… sì… figurati… però… le tradizioni…
– Ma che però!… Ma che tradizioni!
E con quanto fiato aveva in corpo, papà Giovanni si mise a gridare:
– Non voglio capretto! Al diavolo tutti i capretti cominciando dal tuo Caprin! Hai capito? E basta, ho detto!
Così, per la seconda volta, in casa di Giovanni Moltacorda fittabile della cascina Benpensata, al pranzo di Pasqua, la famiglia rimase senza arrosto.

°°°°°
SEN ROSTAĴO
Novelo de Karlo Bertolazzi, trad. Johano (Giovanni) Della Savia
(“L’Esperanto” 1922-3, p. 39-43)

Kia malfeliĉa Pasko! Malsame ol en la pasintaj jaroj, tiun vesperon en patriarka domo de Johano Moltacorda, farmanto en la “Cascina Benpensata”, la tagmanĝo, kutime tiel gaja kaj bonhumora, estis malbonhumora.
Kompreneble! Kiam maljuna Johano estis trovinta ion pri kio kritiki, lia kolero estis senfina! Li eĉ estis tolerema nek kun sia propra edzino, nek kun la filoj, nek kun la nevoj, nek kun la bofiloj, nek kun la bofilinoj!…
Domestro, ja estis li!… Mastro je la «Sankta Familio» efektive estis li!… Li povis do bone trudi sian volon kaj eĉ siajn kapricojn… ĉu ne?
Sed, diable, kio okazis tian vesperon? Serioza, kaj grava afero… Paĉjo Johano jam de unu horo grumblis: – Demandas mi! Paskon sen kapridaĵo! Eĉ kun multaj virinoj dome! Virinoj, kiuj pretendas scii!… Longajn ili havas nur siajn langojn!… Kaj kion faris la servistinoj? Nenion la tutan tagon! Kaj la mastrumantino? Kaj la ĉasgardisto? Kaj la kampogardisto? Ĉiuj nelaboremuloj!
Ĉu estas eble, ke neniu el la domo pensis havigi kapridviandon? Sankta ĉielo! Ĉiuj sciis bone, ke li zorge konservas la tradiciojn! Je Kristnasko: rizoton, meleagron kaj Milanan kukon; je la unua tago de l’ jaro: salatan porkviandon kaj kutiman torton kun faboj; je Pentekosto: pastojn tute plenajn je viando; je Pasko: malmolajn ovojn kune kun olivfruktoj, kaj « kapridan rostaĵon»!
Estis nenio por kritiki! Estas nur necese respekti tradiciojn, kaj alie kio rezultus? Adiaŭ patriarka familio, adiaŭ unueco, adiaŭ forto!…
Agi moderne? Novaĵojn? Modernaĵojn? Jes… por ruinigi! Absolute oni devas agi kiel la prapatroj mem ĉiam agis… Tiom da modernaj kukoj kial? kaj pudingo kaj francaj saŭcoj? Estis aĵoj, kiuj difektas stomakon kaj forprenas ĉiun poezion de la festtagoj! Uf! Estis vere; ne plu estis religio… ne estis plu sento… plu nenio!…
Kaj tom-tom kaj tom-tom la grumblo de Paĉjo Johano dauris kiel se en la kuirejo bolus kaŝtanoj!
Malfeliĉa sinjorino Matildo! La kompatindulino (eta maljunulino, kiu konsistis nur el haŭto kaj okulvitroj sur la nazo) estis ĉiam tie, sidanta apud sia grumblanta edzo, jam preta aŭskulti lin kaj ankaŭ lin pravigi…. Sed la aliaj?
Ho, «la aliaj» tiun vesperon, vidinte iun danĝeron, malaperis… Unu post la alia, kaŝeme, marŝante sur piedpintoj, ili estis rifuĝintaj en alia ĉambro kaj tie ĉi ili ridis pri maljuna Johano kaj pri liaj kapricoj…
Dume, panjo Matildo serĉiŝ kvietigi koleron de sia edzo: – Jes, Johano…. Vi estas prava… estis nur forgeso nia… sed ni faras al vi certan promeson: similaĵo ne plu okazos!
– Se ĝi okazus… ve! – ekkriis malhelvoĉe sinjoro Johano…
– Por venonta jaro – aŭskultu min bone – mi donas formalan ordonon jam de nun: ses monatoj antaŭe ni aĉetos kapridon… tiamaniere, por Paska festo ne mankos al ni rostaĵo… Mi diris… Kaj sufiĉu!…
Kaj post «Mi diris… Kaj sufiĉu» maljuna farmanto leviĝis el sia seĝego, pretigis lumigiìon kaj, ĉiam grumblante, li iris dormi. Tiel lia tago finiĝis!
***
La ordono estis formala kaj preciza. Ses monatojn antaŭ Pasko oni akiris kaprideton. Rostaĵo, tiel, estis do certigita!
Tiu kaprideto estis ja kuriozaĵo. Blankfela kun nigra makulo sur ĝia frunto, ĝuste super ĝia dekstra okulo. Rozkolora buŝeto, longa, malgrasa; ĉarma buŝo; dentaro simila al eburo; oreloj mallongaj kaj pintaj; du okuloj lazuraj kiel la ĉielo; antaŭaj piedetoj facilmovaj kaj delikataj kaj kun movadoj kiel de amanta katino; fine malgranda vosto, kiu finiĝis per bela floko.
Kiam kaprideto rekte tenis sian kapon, ferminte kaj malferminte de temp’ al tempo dekstran okulon, ĝi ŝajnis tiel buba kaj tiel ruza ke oni nepre devis ridi!
Tia nigra makulo oblikve, tia palpebrumo, tia vostet-svingo havis ian komikaĵon, kiu plaĉis; kaj ĝia rigardado estis tiel dolĉa kaj melankolia, ke ĝi kortuŝis. Konklude, tian kaprideton oni bezonis ami!
La alveno de kaprido estis festo por “Cascina Benpensata”. Mi ne parolos pri la nevoj de paĉjo Johano!! Festo! Festego!!
Luĉio, tuj kiam ŝi gin vidis, ekkriis: – Ho bela, jen kapret’!
Kapret’! Tuj oni trovis, ke tiu ĉi estis bela nomo, kaj besteto estis tiel baptita.
Nur paĉjo Johano ĵetis malfideman rigardon.
– Ĝi estas iom malgrasa – li diris; – bezonos ĝin grasigi… alie por Pasko ni mordetos nur ostojn!
Ĝin grasigi?! Ok tagojn post ĝia akiro, Kapret’ iĝis mastro de la Cascina.
Ĉiuj pli bonaj manĝaĵoj estis por ĝi.
En la domo, sub portikoj, en kortoj, en staloj, ĉie, unika voĉo:- Kapret’!… Kapret’!… – Ĉiuj vokis ĝin, ĉiuj ĝin deziris…
Tamen Kapret’ preferojn ne havis. Kie estis sukerpeceto por manĝi, kie ĝin atendis kareso, ĝi tie alvenis… kurante, saltetante… vigla… gaja… ĝentila…
Infanoj faradis kun ĝi ludojn ĉiuspecajn. Ili ludadis… ridis, eĉ kun ĝi ruladis teren… Vera amiko, kunulo, frato ĝi estis!
Kaj kiom da aĵoj ĝi lernis! – Kapret’! donu al ni piedeton! – Kaj Kapreto, per gracia movo, prezentis sian piedeton.
— Kapret’… saltu!
Kaj Kapret’ faris kapriolon.
– Kapret’!… Nun mi mortigos vin. «Pum» – Mortigita!
Kaj Kapreto kuŝiĝis teren, etendita, malfermetante la okulojn.
Frumatene, kiu estis tiu, kiu vekigis ĉiujn? Estis Kapret’! – Ĝi eniris en ĉiujn ĉambrojn.
Per eksalto ĝi estis sur lito,… ĝi alproksimiĝis al la dormanto, frapis lin per sia kapeto kaj tuŝis per piedeto… Ĝi ŝajnis diri: – «Dormegulo! Vekiĝu! Estas malfrue, ĉu vi scias?».
Dum pluvaj tagoj ĝi restis dome, kaŭrinta je l’ piedoj de l’ domestrino. Granda ĝojo estis por sinjorino Matildo teni ĝin apud si, karesi ĝin… same, kiel alian filon….
Kiu ne amis Kapreton?
***
Ses monatoj estas multaj… sed la tempo fluas, verdire! Vintro finiĝis!… Rozoj ree floradis… Printempo estis belega. La kamparo ĉirkaŭ “Cascina Benpensata”, sub ĉielo purega, estis admirinda, karesita per ĝentila marta venteto. Naturo reviviĝis, ĉio ŝajnis ĉirkaŭvolvata de ondo de poezio.
Nur la personoj ŝajnis ne partopreni al tia printempa ĝojo. Kial? Pasko alproksimiĝis. Kapreto devas morti! Ĉu ĝi devas morti? Certe! Tia estis la interkonsento. Ĉiuj sciis tion: komencante de maljuna sinjorino Matildo ĝis la lasta farmejano, kaj tamen neniu el ili volis paroli la unua.
Ŝajnis ke mistero, sekreta animdoloro estis ĉe tiuj bonaj personoj, Kapreto? kun tia kapeto… kun tiaj dolĉaj kaj brilaj okuloj, kun tia ĝentila piedeto, ĝi estos baldaŭ oferbuĉata, brute oferbuĉata pro manĝo!
Oni akiris ĝin nur pro tio… Oni nutris ĝin, oni karesis ĝin ĝuste por havi ĝin pli grasa, pli gustoplena…. Ĉu tio estis verdire, daŭra perfido?
Tiom da ĝentilaĵoj, tiom da bonaj manĝaĵoj, tiom da karesoj, kial? Por igi nur pli apetita Pask-tagmanĝon !
Kiel estas malnoblaj kaj egoistaj la homoj!… Pli sinceraj… pli bonaj… estas la bestoj, milfoje pli!…
Ha, se ne estus paĉjo Johano! oni estus povinte modifi… surpasi tion, pri kio oni konsentis… Sed kun tia obstina kaj terura homo?
Kiu estus povinta havi tiom da kuraĝo proponi kapridetan savadon?
Venis terura tago… Familio Moltacorda estis kunveninta en manĝoĉambro pro ĝia kutima matenmanĝo.
Paĉjo Johano, dum manĝado, diris :
– Nu, gefiloj? Kiam oni buĉos tiun kaprideton? Ĝis Pasko, nun, mankas nur dek tagoj!
La propono, kvankam antaŭvidita, kvankam de ĉiuj terure kaj time atendita, tamen alvenis kiel ne atendita! Tia sciigo estis kiel fulmo tra serena ĉielo!
Silento! Post tio paĉjo Johano:
– Ho, mi parolas kun vi!
La bona sinjorino Matildo tentis elturniĝon: – He, estas ankoraŭ tempo!
– Ne multe! Memoru ke kapridaĵo plaĉas al mi ne ĵus buĉita… Necese estas pensi almenaŭ unu semajnon antaŭe…
Interparolado estis tro ĉagrena. Sinjorino Matildo volis ĝin ĉesigi:
– Bone bone! Morgaŭ!
Kaj la morgaŭa tago venis.
– Ĉu kaprideto estas buĉita?
Kiel obstina estis paĉjo Johano!
– Morgaŭ! Morgaŭ!
Sed ankaŭ dum la posta tago Kapreto estis viva kaj gaja pli ol antaŭe. Patro Johano, tiun fojon, komencis kriegi:
– Kiel marŝos tiu ĉi afero? Ĉu la kaprideto ankoraŭ vivas?… Mi ordonis buĉi ĝin. Kiom da tempo oni volas atendi? En la antaŭtago de Pasko, kiam ni ne havos plu da tempo?…
Sinjorino Matildo kuraĝe proponis akiri alian kaprideton kaj Kapreton libere enlasi en la kampoj.
He, li estus devinta kompreni – al tiu besteto ĉiuj en Cascina havis korinklinon… Por nevetoj eĉ ĝi estas amuzaĵo… ĝi estas kunulo… Kaj fine? Ĝi estis tiel bona… tiel dorlotema… tiel amema… kiel buĉi ĝin?
Ĉio estis vana. Paĉjo Johano rezonojn ne volis aŭdi. Nutradi alian beston? Jes, kun nunaj malriĉaj jaroj! Kaj poste? Kial oni serĉis artifikojn por vivteni tiun ĉi «karan Kapreton»?
De nun la afero fariĝis preskaŭ honorpunkto por li. – Nevetoj estus sin amuziĝantaj per pupoj, Neniel!… Kapreto devas esti buĉata!
– Laŭrenco, iru baldaŭ en la manĝaĵejo kaj buĉu tiun kaprideton.
Sed Laŭrenco, lia pliaĝa filo, liberigis sin dirante:
– Mi nun ne havas tempon, patro… Mi jam jungis ĉevalon al ŝarĝoveturilo kaj mi devas troviĝi en la vilaĝo kune kun makleristo… Mi havas intervidiĝon…
– Vi, do, Bernardo…
Bernardo estis pli sincera.
– Paĉjo… donu similan komision al kiu vi volas, sed ne al mi!
– Kiel, vi rifuzas?
– Mi komencis ami tian besteton; tio estas eble malsaĝaĵo… sed mia sento estas pli forta ol mi… Malfeliĉa Kapreto!… Ne, ne…. mi ne!
Patro Johano jam komencis kolerspiregi!
– Kie estas la kampogardisto?
Kaj la kampogardisto aperis.
– Prenu baldaŭ la kapridon: iru en la manĝaĵtenejo kaj buĉu ĝin!
La kampogardisto prenis Kapreton inter siaj brakoj, iris en la manĝaĵtenejo kaj sin enŝlosis en ĝi.
Ĉiuj en la domo estis rifuĝintaj en siajn ĉambrojn. Kion ili faris? Mi ne scius kion; nur mi povas diri al vi, ke pli malfrue, kiam la kampogardisto eliris, multaj el ili havis larmojn ĉe la okuloj.
Unu horo pasis.
Patro Johano estis sola en sia laborejo, farante kalkulojn.
Ne atendite, pordo malfermiĝis.
– Ĉu estas permesate?
– Kiu estas?
– Ha, Sinjoro!
– Antaŭen…
– Ha, Sinjoro!…
– Al la diablo! se vi ne klarigas vian penson….
– Tiam mi devas sincere diri al vi unuvorte, mi kuraĝon ne havis!…
– Ankaŭ vi!! Sed ĉu tiu malbenata besto ĉiujn ensorĉis?
– Ha, Sinjoro!
– Iru al la diablo ankaŭ vi kun via “Ha, Sinjoro!”
– Se vi provus! Ne estas eble… ĝi montras tiajn okulojn!…
– Ĉu vi volas scii kion mi diras? Ke vi ĉiuj estas malkuraĝaj kiel virinoj, kunikloj kapablaj fari nenion!…
– Kredu al mi… oni ne povas… se vi provus…
– Certe mi provos, Kaj ankaŭ mi vidigos al vi, ke homo ne devas havi multajn kapricojn en sia kapo!…
Kaj eldirinte tiajn parolojn, patro Johano eliris furioze. Kapreto, dume, kiel kutime, ludis en la korto.
— Ha, vi estas tie ĉi, fripono!? Iru… venu!… Prenu… Kapret’… Kapret’!… Kaj Kapreto, obeema kaj respekta, saltetante, kun sia buŝeto supren, movetante sian voston, sekvis la mastron en la manĝaĵejon.
***
Patro Johano rapidemis. En la manĝaĵejo li estis sola. Des pli bone! Tiel li ne estus vidinta tiom da grimacoj… tiom da virinaj svenoj.
Ho, pro Diano, li ja montrus kiel oni obeas la ordonojn: sen ŝanceliĝo, sen dubo. Li malfermis keston; li elprenis tranĉilegon, longan kaj akran…
– Venu tien ĉi… honestulo… Ĉu vi vidas gilotinon?
Kaj dirante tion patro Johano svingis alte sian tranĉilegon.
Kapreto suprenlevis sian rozkoloran buŝeton kaj atentis.
Verdire, ĝi ŝajnis ne doni al tiu afero multe da graveco, ĉar ĝi balancis sian kapon kaj poste ĝi suprenlevis dekstran piedeton, movante ĝin tra l’ aero.
– Kiel vi estas komika! Vi ja ridigas min per tia buŝeto…
Li sidiĝis, poste li daŭrigis:
– Ĉu vi scias ke baldaŭ, tie, vi estos mortinta?
Aŭdante la vorton «mortinta», Kapreto ŝajnis rememori sian preferatan ludon. Ĝi ne eĉ unu momenton hezitis: ĝi kuŝiĝis teren, fermetante la okulojn.
– Vi ludas ankaŭ! Vi havas tian kuraĝon! Brave!
Sed Kapreto ne moviĝis.
– Mi komprenas… vi volus min trompi kaj savi vin per iu ŝerceto… He, karulo! Vi ne sukcesos!… kuraĝu do… venu tien ĉi. Kapret’!… Kapret’!… Kapret’!… Prenu!
Nehezitante Kapreto obeis al la alvoko.
Kiam ĝi estis proksime al li, la besteto suprenlevis sian korpon kaj sin apogis per piedetoj sur genuoj de sia ekzekutisto. En la manĝaĵejo fariĝis mortsilento. La dekstra brako, kiu svingis tranĉilegon, leviĝis. En tiu momento la kaprido apogis sian rozkoloran buŝeton sur la maldekstran manon de paĉjo Johano kaj komencis tuj, per lango, ekleki kaj kisi lin…
La okuloj de maljuna farmanto renkontiĝis kun tiuj de la kaprideto… Kapreta rigardo estis dolĉa… plena je melankolio kaj boneco. Ĝi ŝajnis kareso… Patro Johano sentis tian kareson… tremetis kaj la tranĉilego falis teren… Ne… ne estis eble!…
***
Kiam paĉjo Johano eliris el manĝaĵejo li trovis Matildo’n, kiu lin atendis.
– Nu? – la bona sinjorino maltrakvile demandis. – Vi absolute volis?…
Sed ŝi ne finis. Kapreto pli gaja kaj vigla ol antaŭe jam kuris en la korto.
– Jen! Jen! Vi ĝin ne buĉis! Brave! Brave!
– Ne! Mi ĝin ne buĉis!
– Vi estis tiel bona kaj ne povis…
– Sed kio bona! Mi ne volas, ke vi supozu ke al mi mankis kuraĝo kiel al ĉiuj kunikloj de l’ familio! Vi ne supozos tion, mi esperas!? Alie mi faros…
Sinjorino Matildo ne permesis lin fini la frazon.
– Ne! Ne! Mi kredas!
– Mi lasis ĝin vivi ĉar… ĉar… ĉar… estis senutile… ĉar ĝi ne bezonis.
– Ĉu vere? Tiamaniere oni kontentigos knabetojn kaj min; la kapraĵon por pasko oni povas aĉeti ĉe l’ buĉisto….
– Sed kio knabetoj! Sed kio buĉisto! Ĉu vi kredis, ke mi volis absolute venkigi la knabetojn, mi?!
–Kiel?! Oni devas tamen…
– Kio? Preni alian kapraĵon?…
– Certe!
– Sed vi ankoraŭ ne komprenis, ke se mi estus dezirinta manĝi rostaĵon, mi estus buĉinta Kapreton? Sed la fakto estas, ke….
Kaj, tie ĉi, patro Johano sin trovis embarasata iri antaŭen. Je la unua fojo dum sia vivo, li estis devigata mensogi, senhonte, antaŭ sia edzino. Sed, kiel ajn, li devis eliri honore. Li faris al si kuraĝon kaj li daŭrigis:
– Estas, ke tiu ĉi jaro mi decidis… decidis… ŝanĝi!
– He?!
– Certe! Mi estas plene sata! Jen kurioza afero!… Ĉu mi ne havas la rajton esti plene sata!
– Ĉu vi?
– Mi … mi… sufiĉe mi havis da kapridrostaĵo… Ĉu oni devas ĉiam manĝi kapridrostaĵon dum Pasko? Kial? Ĉu ĉar mia patro kaj mia avo mem manĝis da ĝi? Bela motivo! Do mi devus iri Milanon piede, ĉar miaj prapatroj ne posedis ankoraŭ fervojon! Ĉu estas eble?
– Jes… jes… tamen… la tradicioj…
– Sed kio tamen!… sed kio tradicioj!…
Kaj kun la tuta forto, kiun al li donis lia spiro, li komencis kriegi: – Mi ne volas kapridon! al la diablo iru ĉiuj kapridoj, komencante de via Kapreto. Ĉu vi komprenis? Kaj tio sufiĉu! Mi diris!
** *
Tial, la duan fojon, en la domo de Johano Moltacorda, farmanto en “Cascina Benpensata”, dum Paska tagmanĝo, familio restis… sen rostaĵo!

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