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Caracalla

L’8 aprile è l’anniversario della tragica morte (nel 217) dell’Imperatore romano Lucius Settimius Bassianus (Lucio Settimio Bassiano), conosciuto con il nome Marcus Aurelius Severus Antoninus Pius Augustus (Marco Aurelio Severo Antonino Pio Augusto), ma soprattutto con il soprannome “Caracalla”,
it.wikipedia.org/wiki/Caracalla
dal nome di un particolare mantello con cappuccio che aveva l’abitudine di indossare (non c’è da meravigliarsi: in epoca moderna, c’è l’esempio del “Montgomery”).
Caracalla è ricordato per due cose:
– la concessione nel 212 (con la “Constitutio Antoniniana”) della cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero (anche se tale concessione non fu suggerita da magnanimità, ma dal bisogno di incrementare il numero dei contribuenti);
– la costruzione di imponenti “Terme”,
it.wikipedia.org/wiki/Terme_di_Caracalla
le cui rovine sono adesso parte integrante della scena più grande del mondo (1.500 metri quadrati, con un proscenio di 22 metri); famosa è la rappresentazione dell’opera “Aida” di Giuseppe Verdi, con un allestimento scenico unico.

Ne ho già parlato il 13 luglio 2017.

Caracalla


Trascrivo la poesia di Giosue Carducci (1835-1907) “Dinanzi alle Terme di Caracalla”, nell’originale italiano e in una delle traduzioni in Esperanto (Antaŭ la Varmbanejoj de Karakalo).
Allego:
– una foto (di Lilli Ticchi) con un particolare delle rovine delle Terme;
– p. 9 de “L’Esperanto” 1972-168/169.


DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA

Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di nevi.

A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a più ardua sfida
levansi enormi.

– Vecchi giganti, – par che insista irato
l’augure stormo – a che tentate il cielo? –
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.

Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
capo de i figli:

se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ‘l Campidoglio

e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);

Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religioso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l’Appia via.

Giosue Carducci

°°°°°

ANTAŬ LA VARMBANEJOJ DE KARAKALO

Cindra la nubar’ super Ĉeljo kuras
super Aventin’; venas vent’ malseka
morne el kampar’ kaj la montoj fore
blankas pro neĝo.

Al grizhara kap’ la vualon verdan
levas brita in’, ŝi en libro serĉas
pri ĉi mur-restaĵ’ tempon kaj ĉielon
alminacanta.

Densa, nigra flug’ de grakantaj korvoj
per senĉesa ond’ renversiĝas flue
kontraŭ murojn ĉi, kiuj pli defie
altas enormaj.

“Olda gigantar’ – ŝajnas pridemandi
ĉi aŭgura svarm’- kial tenti astrojn?”.
Peze venas el Laterano batoj
de l’ sonoriloj.

Montarano nun, en mantel’ volvita,
fajfetante tra la densega barbo,
pasas sen atent’. Mi vin vokas, Febro,
dio ĉi tien.

Se l’ okulojn vi de l’ patrinoj ŝatis,
priplorantaj kaj la streĉitajn brakojn
vin puŝantaj for de l’ klinita kapo
de la gefiloj,

se l’ praaltar’ sur Palaca verto
kontentigis vin (dum karesis monton
la Tibera flu’ kaj ĉe Aventino
kaj Kapitolo

reen Romian’ je l’ krepusko ŝipis
rigardante sur la kvadratan urbon
la sun-ridon kaj susuradis lante
kanton saturnan),

Febro, aŭdu min: la nuntempajn homojn
pelu foren kun la zorgetoj propraj;
estas ĉi restaĵ’ religia: Roma
dio ĉi dormas.

Al Palaca mont’ ŝi apogas kapon,
brakojn sternas ĝis Aventin’ kaj Ĉeljo,
etendiĝas korp’ tra Kapena pordo
al Apja vojo.

Giosue Carducci, trad. Gaudenzio Pisoni
(“L’Esperanto” 1972-168/169, p.9)

 

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