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Battaglia di Legnano

Il 29 maggio 1176 fu combattuta la battaglia di Legnano,
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in cui una lega di Comuni dell’Italia settentrionale, riuniti nella Lega Lombarda a seguito del giuramento avvenuto nell’Abbazia di Pontida (presso Bergamo) il 7 aprile 1167, sconfisse l’imperatore tedesco Federico Barbarossa.
Trascrivo (in italiano, e nella traduzione in Esperanto) la poesia di Giosuè Carducci “Il Parlamento”, tratta dal poema “La canzone di Legnano”.
Due curiosità:
1- l’ultimo verso della poesia è geograficamente errato, perché il monte Resegone è situato a nord-est di Milano, e quindi il sole non può calare dietro di esso, per chi guardi da Milano;
2- pochi sanno (perché generalmente si cantano soltanto le prime due strofe) che la battaglia di Legnano è citata nella quarta strofa del “Canto degli Italiani”, più noto come “Fratelli d’Italia” dal primo verso, oppure “Inno di Mameli” dal nome dell’autore delle parole,
it.wikipedia.org/wiki/Il_Canto_degli_Italiani
Inno nazionale della Repubblica Italiana:
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core e la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.
Allego l’immagine del monumento di Enrico Butti (1847-1932), a Legnano, al “combattente di Legnano”, normalmente (ma erroneamente) ritenuto monumento al condottiero Alberto di Giussano.


Da “La Canzone di Legnano”

IL PARLAMENTO

 

I.

Sta Federico imperatore in Como.

ed ecco un messaggero entra in Milano

da Porta Nova a briglie abbandonate.

“Popolo di Milano”, ei passa e chiede,

“Fatemi scorta al console Gherardo”.

Il console era in mezzo de la piazza,

e il messagger piegato in su l’arcione

parlò brevi parole e spronò via.

Allor fe’ cenno il console Gherardo,

e squillaron le trombe a parlamento.

 

II.

Squillarono le trombe a parlamento:

ché non anche risurto era il palagio

su’ gran pilastri, né l’arengo v’era,

né torre v’era, né a la torre in cima

la campana. Fra i ruderi che neri

verdeggiavan di spine, fra le basse

case di legno, ne la breve piazza

i milanesi tenner parlamento

al sol di maggio. Da finestre e porte

le donne riguardavano e i fanciulli.

 

III.

“Signori milanesi”, il consol dice,

“la primavera in fior mena tedeschi

pur come d’uso. Fanno pasqua i lurchi

ne le lor tane, e poi calano a valle.

Per l’Engadina due scomunicati

arcivescovi trassero lo sforzo.

Trasse la bionda imperatrice al sire

il cuor fido e un esercito novello.

Como è co’ i forti, e abbandonò la lega”.

Il popol grida: “L’esterminio a Como”.

 

IV.

“Signori milanesi”, il consol dice,

“l’imperator, fatto lo stuolo in Como,

move l’oste a raggiungere il marchese

di Monferrato ed i pavesi. Quale

volete, milanesi? od aspettare

da l’argin novo riguardando in arme,

o mandar messi a Cesare, o affrontare

a lancia e spada il Barbarossa in campo?”.

“A lancia e spada”, tona il parlamento,

“a lancia e spada, il Barbarossa, in campo”.

 

V.

Or si fa innanzi Alberto di Giussano.

Di ben tutta la spalla egli soverchia

gli accolti in piedi al console d’intorno.

Ne la gran possa de la sua persona,

torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano

la barbuta: la bruna capelliera

il lato collo e l’ampie spalle inonda.

Batte il sol ne la chiara onesta faccia,

ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.

È la sua voce come tuon di maggio.

 

VI.

“Milanesi, fratelli, popol mio!

Vi sovvien” dice Alberto di Giussano

“Calen di marzo? I consoli sparuti

cavalcarono a Lodi, e con le spade

nude in mano gli giurar l’obedienza.

Cavalcammo trecento al quarto giorno,

ed a i piedi, baciando, gli ponemmo

i nostri belli trentasei stendardi.

Mastro Guitelmo gli offerì le chiavi

di Milano affamata. E non fu nulla”.

 

VII.

“Vi sovvien” dice Alberto di Giussano

“il dì sesto di marzo? Ai piedi ei volle

tutti i fanti ed il popolo e le insegne.

Gli abitanti venian de le tre porte,

il carroccio venìa parato a guerra;

gran tratta poi di popolo, e le croci

teneano in mano. Innanzi a lui le trombe

del carroccio mandâr gli ultimi squilli,

innanzi a lui l’antenna del carroccio

inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi”.

 

VIII.

“Vi sovvien?” dice Alberto di Giussano:

“vestiti i sacchi de la penitenza,

co’ piedi scalzi, con le corde al collo,

sparsi i capi di cenere, nel fango

c’inginocchiammo, e tendevam le braccia,

e chiamavam misericordia. Tutti

lacrimavan, signori e cavalieri,

a lui d’intorno. Ei, dritto, in piedi, presso

lo scudo imperial, ci riguardava,

muto, col suo diamantino sguardo”.

 

IX.

“Vi sovvien”, dice Alberto di Giussano,

“che tornando a l’obbrobrio la dimane

scorgemmo da la via l’imperatrice

da i cancelli a guardarci? E pe’ i cancelli

noi gittammo le croci a lei gridando

– O bionda, o bella imperatrice, o fida,

o pia, mercé, mercé di nostre donne! –

Ella trassesi indietro. Egli c’impose

porte e muro atterrar de le due cinte

tanto ch’ei con schierata oste passasse”.

 

X.

“Vi sovvien?”, dice Alberto di Giussano:

“nove giorni aspettammo; e si partiro

l’arcivescovo i conti e i valvassori.

Venne al decimo il bando – Uscite, o tristi,

con le donne co i figli e con le robe:

otto giorni vi dà l’imperatore -.

E noi corremmo urlando a Sant’Ambrogio,

ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.

Via da la chiesa, con le donne e i figli,

via ci cacciaron come can tignosi”.

 

XI.

“Vi sovvien”, dice Alberto di Giussano

“la domenica triste de gli ulivi?

Ahi passion di Cristo e di Milano!

Da i quattro Corpi santi ad una ad una

crosciar vedemmo le trecento torri

de la cerchia; ed al fin per la ruina

polverosa ci apparvero le case

spezzate, smozzicate, sgretolate:

parean file di scheltri in cimitero.

Di sotto, l’ossa ardean de’ nostri morti”.

 

XII.

Cosí dicendo Alberto di Giussano

con tutt’e due le man copriasi gli occhi,

e singhiozzava: in mezzo al parlamento

singhiozzava e piangea come un fanciullo.

Ed allora per tutto il parlamento

trascorse quasi un fremito di belve.

Da le porte le donne e da i veroni,

pallide, scarmigliate, con le braccia

tese e gli occhi sbarrati al parlamento,

urlavano – Uccidete il Barbarossa -.

 

XIII.

“Or ecco”, dice Alberto di Giussano,

“ecco, io non piango più. Venne il dì nostro,

o milanesi, e vincere bisogna.

Ecco: io m’asciugo gli occhi, e a te guardando,

o bel sole di Dio, fo sacramento:

diman la sera i nostri morti avranno

una dolce novella in purgatorio:

e la rechi pur io!”. Ma il popol dice:

“Fia meglio i messi imperiali”. Il sole

 

ridea calando dietro il Resegone.

 

Giosuè Carducci

 

°°°°

El “La kanzono de Legnano”

LA PARLAMENTO

 

I.

Staras cezaro Frederik’ en Como.

Kaj jen, sendit’ enrajdas en Milano

tra l’ Nova Pord’ kun delasitaj bridoj.

“Popol’ Milana” petas li pasante,

“min gvidu al Gherardo, la urbestro”.

L’ urbestro estis meze de la placo,

kaj la sendit’, el selo kliniĝinte,

diris mallongajn vortojn kaj forspronis.

Gherardo, la urbestro signofaris,

trombonoj sonis por la parlamento.

 

II.

Trombonoj sonis por la parlamento.

Nek la palaco grandpilastra estis

ankoraŭ refarita; nek tribuno,

nek tur’ ekzistis, nek en turo-supro

la sonoril’: do inter nigraj ruboj

verdantaj de dornaĵ’, inter malaltaj

domoj el ligno, en la plac’ mallonga,

la milananoj faris parlamenton

sub maja sun’. De l’ pordoj kaj fenestroj

rigardis la virinoj kaj infanoj.

 

III.

“Milana sinjorar’ – l’ urbestro diras, –

germanojn portas la printempo flora,

kiel kutime. Paskas la manĝuloj

en sia grot’, descendos poste valon.

Tra Engadin’ du ekskomunikitaj

ĉefepiskopoj gvidas la armeon.

La blonda cezarin’ al sia Siro

portas fidelan koron, novajn trupojn.

Como fortulojn sekvas, Ligon rompis”.

Ekkrias la popol’: “Eksterm’ al Como!”

 

IV.

“Milana sinjorar’ – l’urbestro diras –

kolektis trupojn Frederik’ en Como,

ĝin movas por kuniĝi kun markizo

de Monferrat’ kaj la pavianoj. Kion

vi volas, milananoj, ĉu atendi,

rigardi de la nova dig’ armite,

aŭ sendi delegitojn, defii

per lanc’ kaj glav’ la Ruĝbarbulon kampe?”

“Per lanc’ kaj glav’!” la parlamento tondras,

“per lanc’ kaj glav’ la Ruĝbarbulon kampe!”.

 

V.

Elpaŝas nun Alberto di Giussano.

Per ŝultroj alte li superas ĉiujn

kolektiĝintajn ĉirkaŭ la urbestro.

Per granda pov’ de sia korp’ li turas

meze de l’ parlament’; li en la mano

havas la kaskon; liaj brunaj haroj

inundas larĝan kolon, vastajn ŝultrojn.

Frapas la sun’ vizaĝon klaran, dignan;

de l’ bukloj, de l’ okuloj refajreras.

La voĉo estas kiel maja tondro.

 

VI.

“Ho milananoj, fratoj, mia gento,

ĉu vi memoras – diras nun Giussano –

kalendon Martan ? La urbestroj pale

rajdis al Lodi, kaj kun nuda glavo

en mano ili ĵuris je l’ obeo.

Tricent ni rajdis la sekvintan tagon,

kaj al piedoj liaj kise metis

niajn belegajn tridek ses standardojn.

Majstro Guitelm oferis la ŝlosilojn

de l’ malsata Milano. Kaj – nenio”.

 

VII.

“Ĉu vi memoras? – diras plu Giussano, –

pri l’ sesa tag’? Li volis ĉe l’ piedoj

la trupojn, la popolon, la insignojn.

Tra la tri pordoj venis la loĝantoj,

l’ Urbĉaro venis, batalpreta, poste

granda amaso da popol’ kun krucoj

en mano. Antaŭ li nun la trombonoj

de la Urbĉaro dissonoris laste.

Antaŭ li la standardo de l’ Urbĉaro

estis klinita. Li la randon tuŝis”.

 

VIII.

“Ĉu vi memoras? – diras plu Giussano –

Vestitaj en la sako de la pento,

kaj kun piedoj nudaj, ŝnur’ ĉe l’ kolo,

ŝutinte cindron al la kap’, en koto

ni ekgenuis, levis niajn brakojn,

kaj petis pri mizerikordo. Ĉiuj

sinjoroj, kavaliroj, ĉirkaŭante

lin, larmis. Li starante rekte apud

la imperia ŝildo, nin observis

mute per sia diamant-rigardo”.

 

IX.

“Ĉu vi memoras?” diras plu Giussano –

ke ni, hontante, la sekvintan tagon,

de l’ voj’ rimarkis la imperiestrinon

tra l’ krad’ rigardi nin. Kaj tra la krado

alĵetis ni la krucojn, alkriante:

– Ho vi, imperiestrino bela, blonda!

Fidela! Pia! Glor’ de niaj damoj! –

Ŝi retiriĝis. Li al ni ordonis

detrui pordojn, murojn de l’ du ringoj,

ke li kun batalpreta trup’ trapaŝu”.

 

X.

“Ĉu vi memoras? – diras plu Giussano, –

naŭ tagojn ni atendis. Kaj foriris

ĉefepiskop’ kaj grafoj kaj juĝistoj.

Je l’ deka venis la ekzil’: – For’, fiaj

kun la edzinoj, filoj kaj havaĵoj:

ok tagojn donas al vi l’ imperiestro -.

Kaj hurle kuris ni al Sant’Ambrogio,

mankroĉis nin al tomboj kaj altaroj.

For de l’ preĝej’, kun filoj kaj edzinoj

nin ili pelis kiel hundojn favajn.”

 

XI.

“Ĉu vi memoras? – diras plu Gussano –

pri la dimanco trista de olivoj?

Ve, Pasion’ de Krist’ kaj de Milano!

Unu post unu ĉe l’ kvar Sanktaj Korpoj

falegi vidis ni la tricent turojn

de l’ bastion’, kaj fine, tra la polva

ruin’ aperis al ni la rompitaj,

dispecigitaj, stumpigitaj domoj:

vidiĝis en tombej’ skeletoj. Sube    

ardis la ostoj de mortintoj niaj”.

 

XII.

Post ĉi parol’, Alberto de Giussano    

okulojn siajn kovris ambaŭmane,

kaj ploris: en la mez’ de l’ parlamento    

li ploris kaj lamentis kiel knabo.    

Kaj tiam tra la tuta parlamento    

trakuris kvazaŭ sovaĝbesta hurlo.    

De l’ pordoj kaj fenestroj la virinoj    

taŭzitaj, palaj, brakojn etendante,    

okulstreĉante al la parlamento,

ekmuĝis: “Huj! Mortigu l’ Ruĝbarbulon!”.

 

XIII.

“Nu jen! Do bone! – diras nun Giussano –    

mi ne plu ploros! Venos nia tago,    

ho milananoj, kaj ni devas venki!    

L’ okulojn mi sekigas; rigardante    

vin, bela sun’ de Dio, jen mi ĵuras:    

mortintoj niaj morgaŭ nokte havos    

novaĵon dolĉan en Purgatorio:    

kaj ja per mi!”. Sed la popolo diras:    

“Pli ĝuste per la imperianoj”. Ride

 

la sun’ subiris post la Resegone.

 

Giosuè Carducci, trad. Kálmán Kalocsay

(“Literatura mondo” 1947-3/4, p. 41-42)

(“Itala Antologio”, COEDES/ FEI, Milano 1987, p. 398-402)

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