Personaggi

Isabella di Morra

Il Parco Letterario “Isabella Morra” di Valsinni (Matera)

www.parcomorra.it/

organizza, nel corso di ogni anno, varie manifestazioni per ricordare la poetessa Isabella di Morra (circa 1520 – circa 1548)

it.wikipedia.org/wiki/Isabella_di_Morra

uccisa dai fratelli per vendicare il “disonore” di una sua illecita relazione con un uomo sposato, il nobile spagnolo (anche lui poeta) Diego Sandoval de Castro, ugualmente ucciso.

In occasione del processo che fu instaurato per l’assassinio del nobile, furono rinvenute e sequestrate alcune poesie (dieci sonetti e tre canzoni) della giovane, la quale, di fatto segregata dai fratelli nel castello di famiglia, trovava nella poesia il conforto alla sua solitudine, tanto più pesante perché si trattava di una donna, per giunta di una delle zone più arretrate del meridione d’Italia; basti pensare, per capire le condizioni di quell’epoca storica e di quei luoghi, che le indagini furono attivamente espletate per l’assassinio dell’uomo, non anche per quello della donna, sia perché l’uomo era un nobile e per di più della nazione spagnola dominante, sia perché allora il cosiddetto “delitto d’onore” era giustificato – e perfino “preteso” – dal sentimento comune

www.bitoteko.it/esperanto-vivo/eo/2018/03/27/fenesta-ca-lucive/

(Del resto, fino al 1981 in Italia la legge stessa puniva il “delitto d’onore con una pena minima, da tre a sette anni di carcere).

Poco dopo la morte di Isabella, il libraio napoletano Marcantonio Passero scoprì per caso le poesie, e le affidò per la pubblicazione allo scrittore Ludovico Dolce, il quale le inserì in un libro (edito a Venezia nel 1552) che raccoglieva le Rime di diversi illustri signori napoletani.

Malgrado la ripubblicazione delle poesie in opere successive, Isabella di Morra rimase quasi sconosciuta fino allinizio del secolo scorso, quando fu rivalutata dal critico Angelo de Gubernatis, che accostò la sua figura a quella di Saffo, e ne fece un simbolo delle donne vittime di violenza familiare (dove si vede che i “femminicidi” di oggi sono tuttaltro che una novità dei nostri tempi).

Il “salto di qualità” avvenne nel 1928, quando Benedetto Croce (1866-1952)

it.wikipedia.org/wiki/Benedetto_Croce

soggiornò appositamente a Valsinni (il luogo dove si erano svolti i fatti di Isabella) per approfondire la figura della poetessa.

Ne risultò, tra laltro, la “scoperta” di inaspettate analogie tra le poesie di Isabella ed alcuni dei più famosi componimenti di Giacomo Leopardi (1798-1837)

www.bitoteko.it/esperanto-vivo/2018/06/29/giacomo-leopardi/

In particolare, oltre ad una analoga visione pessimista, è stata notata la stretta somiglianza tra i versi di Leopardi (da “Le Ricordanze”):

«Né mi diceva il cor che letà verde

sarei dannato a consumare in questo

natio borgo selvaggio, intra una gente

zotica, vil»

e i versi di Isabella:

«fra questi aspri costumi

di gente irrazional, priva dingegno»,

 

tanto che si è pensato che Leopardi conoscesse i versi di Isabella.

Nel 2017, in occasione dell’84° Congresso italiano di Esperanto a Policoro/ Heraclea (Matera), fu pubblicata una “Lukana Antologio” (Antologia lucana), a cura di Carlo Minnaja, con traduzioni in lingua internazionale di opere di autori di quella Regione; fu così che apparve in Esperanto la poesia di Isabella “Signor, che insino a qui, tua gran mercede”, nella traduzione di Nicolino Rossi (insieme con alcune poesie di Diego Sandoval de Castro).

Trascrivo la poesia di Isabella, in italiano e in Esperanto, ed allego:

– la copertina dellAntologia Lucana;

– un annullo postale speciale di Potenza del 9 dicembre 1978, in occasione del 7° Premio letterario “Basilicata”, con limmagine di Isabella di Morra.


XII. SIGNOR, CHE INSINO A QUI, TUA GRAN MERCEDE

 

Signor, che insino a qui, tua gran mercede

con questa vista mia caduca e frale

spregiar mhai fatto ogni beltà mortale,

fammi di tanto ben per grazia erede,

che sempre ami te sol con pura fede

e spregie per innanzi ogni altro oggetto,

con sì verace affetto,

chognun madditi per tua fida amante

in questo mondo errante,

chaltro non è, senza il tu amor celeste,1

chun procelloso mar pien di tempeste.

 

Signor, che di tua man fattura sei,

ovogni ingegno saffatica in vano,

ritrarre in versi il tuo bel volto umano

or sol per disfogare i desir miei,

ad altri no, ma a me sola vorrei,

ed iscolpirmi il tuo celeste velo,

qual fu quando dal Cielo

scendesti ad abitar la bassa terra

ed a tor luom di guerra.

Questa grazia, Signor, mi sia concessa

chio mostri col mio stil te a me stessa.

 

Signor, nel piano spazio di tua fronte

la bellezza del Ciel tutta scolpita

si scorge, e con giustizia insieme unita

de lalta tua pietade il vivo fonte,

e le pie voglie a perdonarci pronte.

Ombre dei lumi venerandi e sacri,

di Dio bei simulacri,

ciglia, del cor fenestre, onde si mostra

lalma salute nostra;

occhi che date al sol la vera luce,

che per voi soli a noi chiara riluce!

 

Signor, cogli occhi tuoi pien di salute

consoli i buoni ed ammonisci i rei

a darsi in colpa di lor falli rei;

in lor simpara che cosa è virtute.

O mia e tutte laltre lingue mute,

perché non dite ancor de suoi capelli,

tanto del sol più belli

quanto è più bello e chiaro egli del sole?

O chiome uniche e sole,

che, vibrando dal capo insino al collo,

di nuova luce se ne adorna Apollo!

 

Signor, da questa tua divina bocca

di perle e di rubini escon di fore

dolci parole chogni afflitto core

sgombran di duolo e sol piacer vi fiocca

e di letizia eterna ogniun trabocca.

Guancie di fior celesti adorne, e piane

a le speranze umane;

corpo in cui si rinchiuse il Cielo e Dio,

a te consacro il mio:

la mente mia qual fu la tua statura

con gli occhi interni già scorge e misura.

 

Signor, le mani tue non dirò belle

per non scemar col nome lor beltade,

mani, che molto innanzi ad ogni etade

ci fabricâr la luna, il sol, le stelle:

se queste chiare son, quai saran elle?

Felice terra, in cui le sacre piante

stampâr tantorme sante!

A la vaghezza del tuo bianco piede

il Ciel sinchina e cede.

Felice lei, che con laurate chiome

le cinse e si scarcò de laspre some!

 

Canzon, quanto sei folle,

poi che nel mar de la beltà di Dio

con sì caldo desio

credesti entrare! Or chai l camin smarrito,

réstati fuor, ché non ne vedi il lito.

 

Isabella di Morra (“Rime”)

 

°°°°°

 

 

 

XII. SINJOR, KIU ĜIS NUN, PRO VIA GRACO

 

Sinjor, kiu ĝis nun, pro via graco,

tra tiu vivo febla kaj pasema,

malŝata igis min pri l bel mortema,

hereda igu min de bono tia,

ke vin purfide amu koro mia,

ke ajnan aĵon hatu mi ĝis fino

per tia korinklino,

ke ĉiu taksu min fidelamanta

en nia mond fivanta,

kiu stas nur sen via am ĉiela,

ja furioza mar ŝtorme kruela.

 

Sinjor, kiun mem faris via mano,

pri vi klopodas vane ĉiu menso,

portreti viajn trajtojn per intenso

versa, plenum de mia volelano,

mi volus nur por mi, ne pro la famo,

kaj al mi skulpti vian vestan helon

sama, kiam el ĉielo

descendis vi por loĝi nian teron

forige hommizeron.

Sinjor al mi permesu gracon tian

al vi montri memon mian.

 

Sinjor, en vasta spac de via frunto

la beleco ĉiela priskulptita

vidiĝas, kaj kun justec unuigita,

de via kompatem la viva fonto,

dum nin pardonas via pia prompto.

Ombroj de lumoj, sanktaj adorindoj,

de Dio belaj bildoj,

palpebroj, korfenestroj por rivelo

de nia animbelo;

okuloj, lumon veran al sun donaj,

al ni ĝi brilas nur tra vi imponaj.

 

Sinjor, tra via okulpar tutsana,

konsol al bonaj kaj admon al mavaj

sin kulpigantaj pro eraroj gravaj,

ni lernas kio estas virto ama.

Ho langoj mutaj kiel mia sama,

kial ne diras vi pri harar lia,

pli ol la sun lumkria,

ĉar multe pli ol sun li hele belas?

Ho krinoj kiuj stelas

solaj, kvazaŭ sur kap vibranta krono,

per ĝi novlume pompas Apolono!

 

Sinjor, de tiu via dia buŝo

el perloj kaj rubenoj fluas for

dolĉaj paroloj, kiuj de la kor

trista suferon viŝas per ĝutuŝo

kaj per eterna drono en ĝojfluso.

Vangoj florbelaj, el ĉiel sindonaj

al la esperoj homaj;

al korp enferma Paradizon Dian

konsekras mi la mian:

mia mensa okul vian staturon

malkovre vidas, taksas la mezuron.

 

Sinjor, ne kantos viajn manajn belojn

mi por vorte ne fuŝi ties miron,

manojn, kiuj jam antaŭ pratemp-iro

elfaris por ni lunon, sunon, stelojn;

se tiuj klaras, l manoj sparku helojn:

Feliĉa tero, kie l sanktaj plantoj

spurojn stampis en kvantoj!

Ĉe la leĝer de via blank pieda

ĉiel kliniĝas ceda.

Feliĉa in, kiu per oraj haroj

tiun envolvis, lase pekofarojn!

 

Kanzon, kiom vi folas,

ĉar en la maron de la Dia miro

per tioma deziro

eniri kredis! Nun perdinte l padon,

vi restu for, ĉar perdis vi l stirradon.

 

Isabella di Morra, trad. Nicolino Rossi

(“Lukana Antologio”, 2017, p. 15-17)

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