Personaggi

Laocoonte

Secondo Eratostene di Cirene (Eratosthénēs ho Kyrēnâios, Ἐρατοσθένης ὁ Κυρηναῖος, 276-194 a. C.), risalirebbero all’11 giugno 1184 a. C. l’incendio e la distruzione di Troia.
Secondo altri calcoli, la data sarebbe un’altra; ne ho parlato il 24 aprile 2020, a proposito del “Cavallo di Troia”:

Cavallo di Troia


Ovviamente, non è facile verificare quali siano i calcoli esatti; e addirittura c’è tuttora chi, contestando Heinrich Schliemann,

Heinrich Schliemann


mette in dubbio lo stesso evento della Guerra di Troia.
it.wikipedia.org/wiki/Guerra_di_Troia
Comunque la si metta (storia, o mito, o invenzione poetica), la Guerra di Troia fa parte inscindibile della cultura occidentale, da Omero (“Iliade”, “Odissea”) a Virgilio (“Eneide”) allo stesso Dante Alighieri nella “Divina Commedia”, Inferno I, 73-75:

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ‘l superbo Ilion fu combusto.
°°°°°
Anche nell’arte, gli episodi di quella Guerra hanno lasciato una traccia profonda: basti pensare al gruppo statuario del “Laocoonte”,
it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_del_Laocoonte
il cui ritrovamento nel 1506 è all’origine dei Musei Vaticani.
Trascrivo, in latino e nelle traduzioni in italiano e in Esperanto, il brano del canto secondo dell’Eneide relativo a Laocoonte; non posso fare a meno di osservare, al riguardo, che la classica traduzione italiana di Annibal Caro (1507-1566) presenta oggi qualche difficoltà lessicale (ad esempio, “m’agghiado”), e non segue affatto l’andamento metrico dell’originale (basti pensare che i versi latini 200-227 sono diventati i versi italiani 340-382).
Immagine: foglietto filatelico vaticano del 2006, per il quinto centenario dei Musei Vaticani, con il gruppo del Laocoonte.


Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos,
sollemnis taurum ingentem mactabat ad aras.
Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta
horresco referens immensis orbibus angues
incumbunt pelago pariterque ad litora tendunt;
pectora quorum inter fluctus arrecta iubaeque
sanguineae superant undas, pars cetera pontum
pone legit sinuatque immensa volumine terga.
Fit sonitus spumante salo; iamque arva tenebant
ardentisque oculos suffecti sanguine et igni
sibila lambebant linguis vibrantibus ora.
Diffugimus visu exsangues. illi agmine certo
Laocoonta petunt; et primum parva duorum
corpora natorum serpens amplexus uterque
implicat et miseros morsu depascitur artus;
post ipsum auxilio subeuntem ac tela ferentem
corripiunt spirisque ligant ingentibus; et iam
bis medium amplexi, bis collo squamea circum
terga dati superant capite et cervicibus altis.
Ille simul manibus tendit divellere nodos
perfusus sanie vittas atroque veneno,
clamores simul horrendos ad sidera tollit:
qualis mugitus, fugit cum saucius aram
taurus et incertam excussit cervice securim.
at gemini lapsu delubra ad summa dracones
effugiunt saevaeque petunt Tritonidis arcem,
sub pedibusque deae clipeique sub orbe teguntur.

Publius Vergilius Maro, “Aeneidos”, II, 2, 200-227

°°°°°

Era Laocoonte a sorte eletto
Sacerdote a Nettuno; e quel dì stesso
gli facea d’un gran toro ostia solenne;
quand’ecco che da Tenedo (m’agghiado
a raccontarlo) due serpenti immani
venir si veggon parimente al lito,
ondeggiando coi dorsi onde maggiori
de le marine allor tranquille e quete.
Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,
e s’ergean con le teste orribilmente,
cinte di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand’archi
traean divincolando, e con le code
l’acque sferzando sì che lungo tratto
si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti a la riva, con fieri occhi accesi
di vivo foco e d’atro sangue aspersi,
vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili.
Noi, di paura sbigottiti e smorti,
chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui
s’affilâr drittamente a Laocoonte,
e pria di due suoi pargoletti figli
le tenerelle membra ambo avvinchiando,
ne si fer crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch’a’ fanciulli era con l’arme
giunto in aiuto, s’avventaro, e stretto
l’avvinser sì, che le scagliose terga
con due spire nel petto e due nel collo
gli racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro al suo capo fieramente infisse,
gli addentarono il teschio. Egli, com’era
D’atro sangue, di bava e di veleno
le bende e ’l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar con le man tentava indarno,
e d’orribili strida il ciel feriva;
qual mugghia il toro allor che dagli altari
sorge ferito, se del maglio appieno
non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I fieri draghi alfin dai corpi essangui
disviluppati, in vèr la ròcca insieme
strisciando e zuffolando, al sommo ascesero
e nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti, a’ piè di lei si raggrupparo.

Publio Virgilio Marone, trad. Annibal Caro
“Eneide”, II, 340-382

°°°°°

Laokoono, nomita per sorto ĉefpastro Neptuna,
apud altaro sanktega grandegan buĉadis bovviron.
Jen el Tenedo, tra ondoj trankvilaj, duopaj serpentoj,
– mi rakontante tremetas! – grandegajn sur maro longigas
ringojn, kaj ambaŭ samvice al bordo sin ili direktas.
Inter ondegoj stariĝas du brustoj, kaj krestoj sangruĝaj
maron superas; dum parto alia tuŝetas ondaron
pli malantaŭe, dum vosto longega per tordoj kurbiĝas.
Bruas ŝaŭmanta salakvo. Jam ili marbordon atingis.
Estis flamantaj okuloj, de sango kaj fajro koloraj,
dume du langoj vibrantaj buŝegojn siblante lekadis.
Tion vidante, ni kuris sensangaj. Laŭ certa direkto,
ili aliras al Laokoono; kaj ĉiu serpento
ĉirkaŭ du liaj naskitoj unue volviĝas, envolvas
ilin, kaj membrojn mizerajn kruele per mordo disŝiras,
poste ekkaptas lin – kiu alkuris por ilin helpegi,
sagojn portante -, kaj ligas per volvoj grandegaj: dufoje
ili lin meze kunpremas, dufoje per skvama vostego
kolon ĉirkaŭas, je kapo kaj brusto lin superegante.
Dume per manoj tirantaj li penas disigi vivligojn,
kiuj difektas rubandojn per kraĉa kaj nigra veneno,
li mem samtempe kriegojn terurajn ĵetadas al astroj.
Tiel blekegas vundita bovviro, altaron lasinta,
kiu hakilon malbone puŝitan el kolo ekskuas.
Poste duopaj serpentoj, al supra preĝejo rampante,
kuras, ĉe alta sanktejo kruelan aliras Minervon,
kaj al piedoj diinaj, sub ŝilda rondaĵo, sin kaŝas.

Publio Vergilio Marono, trad. Henri Vallienne
“Eneido”, 2, 201-227

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