Personaggi

Luigi Capuana

Il 28 maggio ricorre la nascita (nel 1839) dello scrittore e giornalista siciliano Luigi Capuana (1839-1915) it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Capuana

uno dei maggiori esponenti del “Verismo” narrativo, noto soprattutto per il romanzo “Il marchese di Roccaverdina” (1901), novelle e fiabe.

Suoi collegamenti con l’Esperanto:

1-  stando alla pubblicità che appare a pagina 40 del numero 1916-3,4 de “L’Esperanto”, la Grammatica di Luciano Cattorini comprendeva tra l’altro qualcosa di Capuana;

2- Radio Roma in Esperanto trattò, il 6 febbraio 1966, l’argomento: “Italaj verkistoj – Luigi Capuana” (v. “L’Esperanto” 1966-1, pag. 12); purtroppo, il testo è andato perduto;

3- dal 18 marzo 2005, la casa natale di Luigi Capuana a Mineo (in provincia di Catania) accoglie la ricca Biblioteca di Esperanto donata da Pietro Rizzo (anche lui di Mineo): it.wikipedia.org/wiki/Casa_museo_Luigi_Capuana

4- il volume a cura di Carlo Minnaja “Luigi Pirandello kaj aliaj siciliaj aŭtoroj”, Milano, FEI, 2012, contiene la traduzione (di Michela Lipari) della novella “Fastidi grassi”, tratta dalla raccolta “Le paesane”. Trascrivo il testo italiano e la versione in Esperanto, ed allego la copertina del volume.


Fastidi grassi

Lo chiamavano don Pietro il Gobbo, ma il gobbo veramente era stato suo padre che, pur avendo due gobbe, una davanti e l’altra di dietro, aveva trovato una coraggiosissima donna, la quale si era rassegnata a sposarlo e gli aveva regalato due figli dritti come fusi. Il nomignolo però era rimasto appiccicato alla famiglia e probabilmente i d’Accursio saranno chiamati i Gobbi fino all’ultima generazione.

Don Pietro d’Accursio, diceva la gente, non era gobbo ma meritava d’esser tale. La gobba, aggiungevano, l’aveva nel cuore. In vita sua non aveva mai dato a un poveretto una buccia di fava, né una stilla d’acqua, mai, mai! Se un poveretto andava a chiedergli l’elemosina e per intenerirlo gli diceva: «Da due giorni non metto niente dentro lo stomaco!» egli aveva la sfacciataggine di rispondergli:

«Beato te, che puoi vivere due giorni senza mangiare! Io, vedi, ho fatto colazione due ore fa e già mi sento lo stomaco vuoto».

A sentir lui, non c’era peggior miseria di quella di esser ricchi. Quanti pensieri! Quanti grattacapi! E come invidiava quegli straccioni che non avevano un soldo in tasca, né un palmo di terreno al sole, né un tetto sotto cui ricoverarsi! Per loro non c’erano Esattori, né Agenti delle Tasse, né Ricevitori del Registro, né focatico, né dazio di consumo, né ruoli di vetture! Essi potevano ridere allegramente in faccia al governo e alla morte, mentre lui, disgraziato, non rifiatava da mattina a sera, sempre in giro di qua e di là, per pagare, pagare, pagare; e, appena aveva finito, doveva ricominciare daccapo! Il Signore gli aveva caricato su le spalle questa pesantissima croce, e gli toccava di portarla, peggio di Gesù Cristo quando lo conducevano al Calvario.

Il suo Calvario era il Puddàru, con gli uliveti che coprivano le colline, le vigne da un lato, i vasti terreni seminativi dall’altro, fino a piè della Montagna, e il gran casamento nel centro, metà villa, metà masseria, con frantoio, per estrar l’olio, palmento, cantina, stalle per buoi, rimesse per la paglia e pel fieno, e tanti e tanti altri impicci!

«Ah! Che non ci voleva pel raccolto delle ulive?»

Una ventina di bacchiatori, una cinquantina di raccoglitrici, e, più, dieci o dodici mangiapane che lavoravano, sì, giorno e notte nel frantoio, sporchi, unti di olio, ingialliti per la perdita del sonno, ma che però divoravano come lupi anche quando non avevano fame. Dove la mettevano quella robaccia indigesta che egli doveva far cucinare dalla massaia? Un mese e mezzo d’inferno!

I coppi, è vero, si riempivano d’olio, ma gli toccava ogni volta scendere giù in cantina col pericolo di rompersi la noce del collo con quegli scalini sdruciti, e sorvegliare gli uomini perché non sbagliassero nel versare l’olio di prima qualità in un coppo, e l’olio di sansa in un altro. Se non apriva tanto d’occhi lui, chi sa che pasticci gli avrebbero fatti!

E così, alla fine, quei mangiapane, si beccavano fazzolettate di pezzi da cinque lire, si ripulivano, si rivestivano a nuovo: e lui poveretto, che aveva dormito appena due, tre ore per notte, per un mese e mezzo di fila, si sentiva tutto rotto, con la nausea dell’odor dell’olio nelle narici e nella gola… E non era finita!

Quel benedettissimo olio poteva restar in cantina, nei coppi? Bisognava venderlo. Ma prima!… Travasarlo due, tre volte, cavar la morga di fondo ai coppi, e poi attendere che il prezzo salisse, salisse!… Sicuro, attendere, mentre i poveretti, che ne avevano tre, quattro cafisi soltanto, se ne sbarazzavano subito e non ci pensavano più!

E che discussioni, che collere, nei giorni di vendita, con quei ladri dei misuratori che recavano la misura falsa e tenevano la spugna attorno al collo del cafiso, per farla impregnare di olio nel riempirlo col boccale! E che arrabbiature coi compratori più ladri di loro, che cercavano di appioppargli falsi pezzi da cinque lire nuovi fiammanti che lo avrebbero rovinato, se lui non avesse avuto la santa pazienza di osservarli bene, voltandoli e rivoltandoli e facendoli ballare sul marmo a uno a uno per sentirne il suono! Se li era proprio guadagnati sudando, arrabbiandosi, perdendoci la voce… E da lì a due giorni dov’erano tutte quelle pile di pezzi da cinque lire?

In mano dell’Esattore, dell’Agente delle Tasse e del Ricevitore del Registro!

«Tu non hai queste seccature!» egli diceva a Cannizzu, povero diavolo che lo serviva come un cane, magro e allampanato, tra tutto quel ben di Dio del suo padrone.

«E voscenza dia ogni cosa a me! Così non avrà più seccature!» gli rispondeva ridendo Cannizzu.

«Ti farei un bel regalo! Mi malediresti giorno e notte! Sta’ zitto! Pensiamo alla semente piuttosto!»

Laggiù al Puddàru, venti, trenta aratri preparavano il terreno: e in paese, nel magazzino del grano, il crivellatore ripassava il farro, la timinia, la francese, l’orzo fra un nugolo di polvere che faceva tossire don Pietro, quasi stesse per sputar fuori i polmoni. Ma era quella la sua croce! Aver l’occhio a tutto, guardarsi da tutti, per non farsi spogliar vivo, ora che non c’era più moralità in questo mondo, e dei galantuomini si era già perso lo stampo.

Era forse sicuro che tutto quel grano da sementa andasse tra i solchi aperti? Non poteva avere cento occhi, non poteva essere come Domeneddio, presente in ogni luogo! Faceva quel che poteva; e si logorava la vita; ci perdeva la salute e l’appetito.

«Beato te, Cannizzu! Pane e cipolla eh! Fai bocconi grossi! Io, intanto, se non ho un buon brodo di manzo, un po’ di fritto, un po’ di pesce, una bistecca o un pezzo di rosbiffe, un po’ di cacio svizzero, e dolce e frutta e caffè…! Mi reggo in piedi così!… E tu puoi bere anche quella specie di aceto, e leccartene i baffi. Io invece…, miseria!… senza due dita di marsala, di moscato, di calabrese! I nostri vini mi riescono indigesti… Mi tornano a gola… Ci vuole pure un po’ di Chianti, un po’ di Bordò… Miseria! Ma bisogna fare la volontà di Dio!»

Cannizzu qualche volta gli rispondeva:

«La farei anch’io cotesta volontà di Dio!»

Don Pietro gli dava su la voce:

«Bestia! Bestia! Pane e cipolla! Ringrazia Gesù Cristo che non ti ha dato altro! Guarda mio fratello. Non ha niente e fa il signore. È guardia campestre; e va a cavallo da mattina a sera. Che cosa deve guardare? I caprai non conducono a pascolo le capre per le strade di campagna comunali! Non ha voluto fare mai nulla, si è giocato e mangiato e bevuto tutto il suo… ed è felice! Ma siccome è più bestia di te, mi odia perché non ho fatto come lui. Che colpa ci ho io? È stata la mia disgrazia. Ho fatto come la formica; tutto mi è andato bene, tutto mi va bene; se mettessi acqua nei lumi, credo che arderebbe come petrolio. Che colpa ci ho io?… E devo sfacchinare il giorno e pensare la notte; pensare a questo, a quello, a cento cose!… La testa mi va per aria… E vorrei dormire il sonno pieno che dormi tu, sul tuo pagliericcio duro! Che vale che il letto abbia tre materasse di lana scelta, e morbide e ben sprimacciate? La testa mi va per aria! Mi rivolto di qua e di là… Sì, sì! Guai se dormissi come te, russando la grossa! Chi penserebbe alla mietitura, alla trebbia? Chi alla vendemmia? Rifiato forse? Tu ridi, bestione, quasi che io dica delle sciocchezze… Ed io ti dico che cambierei volentieri il tuo stato col mio!»

«Cambiamolo, Eccellenza!»

«Mi malediresti l’anima cento volte al giorno!»

«Ma, infine, da qui a cento anni, voscenza non si porterà tutto nell’altro mondo. Per chi lavora?»

«Lo so io? È la mia croce, non lo capisci? Ne godo forse di tutta questa ricchezza?… Perché, tu lo sai bene, ce n’è di grazia di Dio, ce n’è! Il magazzino del grano è pieno come un ovo; la cantina non ha una botte vuota; la dispensa ha quaranta coppi ricolmi fino all’orlo… E poi, e poi!… Se ti dicessi quel che mi deve il barone Pitulla? Con belle ipoteche… Eh! Eh!… Ma che vale? Lui se la spassa a Napoli, a Roma, a Torino, a Parigi… Ed io sono stato a Roma, una volta sola, col pellegrinaggio, per vedere il Papa!… E se non tornavo subito, addio mietitura! Posso prendermi uno svago io?… Niente, niente! La mia croce è questa. Sia fatta la volontà di Dio!»

E don Pietro d’Accursio, detto il Gobbo, era invecchiato, mangiando bene, bevendo benissimo, grasso, roseo, tondo, col suo eterno lamento su le labbra, predicando sempre che non c’è peggiore miseria di quella di esser ricchi; non facendo mai carità a nessuno, neppure a suo fratello che aveva otto figli e non sapeva come sfamarli col suo misero soldo di guardia campestre; dando da campare però a tante persone, pagando puntualmente tutti fino all’ultimo centesimo, mai però un centesimo di più, come neppure uno di meno. Egoista sì, ma sincero nei suoi lamenti e nel suo aforismo prediletto: non c’è peggiore miseria della ricchezza!

E questo si vide benissimo nell’ultima sua malattia.

Quando si accorse che l’ora era arrivata, mandò a chiamare il fratello: «Senti, Nanni; ti capita una gran disgrazia: stai per diventare ricco, ricco assai. Il Signore abbia pietà di te. Pensa al funerale. Sarai costretto a spendere qualche migliaio di lire. Che vuoi farci? I quattrini sono là, in quel cassetto.  I poveretti vanno all’altro mondo senza torce, né preti, né concerto: io sono ricco e debbo pensare a queste miserie anche in punto di morte!… Senti, Nanni: una bella cassa di noce scura, foderata di raso… Ti costerà parecchio… Ma che vuoi farci? Tu, se fossi morto guardia campestre, avresti dovuto contentarti della cassa del Comune… Te la saresti cavata, senza darti nessun pensiero, senza un soldo di spesa. Basta; io me ne vado. Mi dispiace d’averti procurato questa disgrazia, questo gran guaio di lasciarti ricco… Fa’ la volontà di Dio, come l’ho fatta io!… Io vo a rendere i conti lassù!… Chi sa come andrà? Speriamo bene. Pensa a quel che ti ho detto di provvedere: cassa, funerale, concerto… E… Spìcciati, spìcciati… Mandami qui il confessore!»

Luigi Capuana, da “Le paesane”, 1894

 

Grasaj ĝenoj

 

Oni lin nomis mastro Petro la Ĝibulo, sed ververe la ĝibulo estis lia patro, kiu, eĉ havante du ĝibojn, unu antaŭe kaj unu malantaŭe, estis trovinta tre kuraĝan virinon, kiu rezignacie submetiĝis al patra volo kaj lin edzigis kaj donacis al li du filojn rektajn kiel kolonojn. La kromnomo tamen restis gluita al la familio kaj tre verŝajne uloj d’Accurso

estos nomataj “la Ĝibuloj” ĝis la lasta generacio.

Mastro Petro d’Accurso, diradis la popolo, ne estis ĝiba sed li meritus esti tia. La ĝibon, ili aldonis, li havis en la koro. Dum sia tuta vivo li neniam donis al mizerulo eĉ nur faboŝelon, aŭ akvoguton, neniam, neniam! Se iu mizerulo iris al li por almozpeti kaj, por lin mildigi, diris: – De du tagoj mi nenion metas en la stomakon! – tiu havis la impertinentecon respondi:

“Feliĉa vi, kiu povas vivi du plenajn tagojn sen manĝi! Mi, sciu, matenmanĝis antaŭ du horoj kaj jam sentas la stomakon malplena”.

Se kredi al li, ne estis pli aĉa mizero ol esti riĉa. Kiom da zorgoj! Kiom da ĝenoj! Kaj kiel li enviadis tiujn ĉifonulojn kiuj havis eĉ ne groŝon en poŝo, nek spanon da grundo subsune, nek tegmenton sub kiu sin ŝirmi! Por ili ne ekzistis impostkolektistoj, nek impostoficistoj, nek akceptantoj de enregistriĝo, nek familiimpostoj, nek akcizo, nek cirkulimposto! Ili povis gaje ridadi survizaĝen al registaro kaj al morto, dum li, malbonŝanculo!, ne sukcesis spiri de mateno ĝis vespero ĉiam irante tien kaj ĉi tien, por pagi, pagi, pagi; kaj, tuj post la fino, li devis refoje komenci! La Sinjoro ŝarĝis liajn ŝultrojn per tiu tre peza kruco, kaj lin trafis la devo ĝin porti, pli malbone ol Jesuo Kristo kiam oni lin kondukis al Kalvario.

Lia Kalvario estis la Puddàru (la bieno), kun la olivarbaroj kovrantaj la montetojn, kun la vitejo unuflanke, la vastaj semterenoj aliflanke, ĝis la montopiedo, kaj kun la granda domego centre, duone vilao, duone farmo, kun muelilo por ekstrakti la oleon, muelŝtono, vinkelo, staloj por la bovoj, remizo por la pajlo kaj la fojno, kaj multaj multaj aliaj kaĉoj!

“Ha! Kaj kio estas bezonata por la kolektado de la olivoj?”

Dudeko da batfaligantoj, kvindeko da kolektantinoj, kaj, krome, deko aŭ dekduo da panmanĝantoj kiuj laboradis, jes, tagnokte ĉe la olivmuelilo, malpuraj, ole-ŝmiritaj, flaviĝantaj pro la dormomanko, sed kiuj tamen formanĝadis kiel lupoj anka kiam ili ne malsatis. Kien ili metis tiun nedigesteblan aĉaĵon kiun li devis kuirigadi de la farmistino? Monaton kaj duonon en la infero!

La ĵaroj, tio ja veras, pleniĝadis per oleo, sed ja estis lia tasko ĉiun fojon malsupreniri suben en la kelon riskante la danĝeron rompi sian kolo-nukson pro tiuj eluzitaj ŝtupaĉoj, kaj kontrolgardi la homojn por ke ili ne eraru verŝante la unuakvalitan oleon en iun ĵaron, kaj la olivrekrementon en alian. Se li ne streĉus malfermege la okulojn, dio scias kiajn fuŝaĵojn ili estus farintaj!

Kaj tiele, finfine, tiuj panmanĝantoj ricevadis tukplenojn da kvin-liroj, repurigadis sin, kaj surmetadis novajn vestojn: kaj li, malbonŝanculo, kiu dormis nur du, tri horojn ĉiunokte, dum sinsekva monato kaj duono, sentis sin tute rompita, naŭzita pro la ole-odoro en la naztruoj kaj en la gorĝo… Kaj la afero ne estis finita!

Ĉu tiu ege benata oleo povis restadi en la kelo, en la ĵaroj? Oni devis ĝin vendi. Sed antaŭe!,.. Oni devis ĝin transverŝi du, tri fojojn, fortiri la feĉon de la fundo de la ĵaroj, kaj poste atendadi ke la prezo kresku, kresku!… Certe, atendadi, dum la mizeruloj, kiuj posedis nur tri, kvar litrodekojn, forliberiĝis tuj kaj ne plu pensis pri tio!

Kaj kiaj diskutoj, kiaj koleroj, dum la vendotagoj, kun tiuj ŝtelemaj mezuristoj, kiuj alportis falsan mezuron kaj tenis la spongon ĉirkaŭ la kolo de la ĵaro, por gin impregni per oleo dum la plenigado per la bokalo! Kaj kiaj kvereloj kun la aĉetontoj, pli ŝtelemaj ol ili, kiuj klopodis trudi falsajn brile novajn kvin-lirojn, kiuj lin ruinigus, se li ne havintus la grandan paciencon ilin tre atente observi, ilin turnante kaj returnante kaj ilin resaltigante sur la marmoron, ĉiun unuope por aŭdi la sonon! Ilin li ververe gajnis ŝvitante, koleriĝante, perdante la voĉon… Kaj, jam post du tagoj, kie estis ĉiuj tiuj stakoj de kvinliraj pecoj?

En la manoj de la Impostkolektisto, de la Impostoficisto, de la Akceptanto de enregistriĝo!

“Vi ne havas tiajn ĝenojn!” li kutimis diri al Cannizzu, kompatindulo kiu lin servadis kiel hundo, maldika kaj senkarna meze de ĉiuj tiuj multaj propraĵoj de sia mastro.

“Kaj via moŝto donu ĉion tion al mi! Tiel vi ne plu havos ĝenojn!” respondis al li ridante Cannizzu.

“Mi farus al vi belan donacon! Vi malbenadus min tagnokte! Silentu! Pli bone ni pensu pri la semaro!”

Tie fore, ĉe la bieno, dudek, tridek plugiloj pretigadis la grundon; kaj en la vilaĝo, en la tritikstokejo, la kribristo rekribradis la speltan tritikon, la timinion, la francan tritikon, la hordeon meze de polvonubo kiu igis mastron Petron tusadi, kvazaŭ li estis forkraĉanta siajn pulmojn. Sed tiu estis lia kruco! Streĉi la okulojn super ĉio, sin gardi de ĉiuj, por ne resti nuda, nun kiam ne plu estas en tiu ĉi mondo ajna moraleco, kaj de la honestuloj oni jam perdis la stampilon.

Ĉu estis certe ke tiu tuta semtritiko falos en la malfermitajn sulkojn? Li ne povis havi cent okulojn, li ne povis esti kiel la Disinjoro, ĉeestanta en ĉiu loko! Li faris kion li povis: kaj forkonsumadis sian vivon; tiel li perdis sian sanon kaj apetiton.

“Bonŝanca vi, Cannizzu! Pano kaj cepo, ĉu ne? Vi manĝas per grandaj buŝplenoj! Mi, dume, se mi ne havas bongustan bovaĵan buljonon, iom da fritaĵoj, iom da fiŝo, bifstekon aŭ pecon da rostbefo, iom da svisa fromaĝo, kaj dolĉaĵon kaj fruktojn kaj kafon… Mi min tenas tiel!…

Kaj vi povas trinki ankaŭ tiun specon de vinagro, kaj ĝin frande ĝui. Mi, male… Damne!… sen colo da marsala, muskata, kalabria vinoj! Niaj vinoj estas por mi nedigesteblaj… ili retrovenas supren en mian gorĝon… Necesas ankaŭ iom da Kianti, iom da Bordoza vino… Damne! Sed oni devas plenumi la Dian volon!”.

Cannizzu kelkfoje respondis al li:

“Ankaŭ mi volonte plenumus tian Dian volon!”

Mastro Petro akre kontraŭdiris:

“Besto! Besto! Pano kaj cepo! Danku Jesuon Kriston ke li donis al vi nenion alian! Rigardu mian fraton. Li havas nenion kaj vivas sinjorece. Li estas kampogardisto kaj rajdas de mateno ĝis vespero. Kion li devas gardi? La ŝafistoj ne paŝtas la kaprinojn laŭ la komunumaj vojoj! Li neniam volis fari ion ajn, li forludis kaj formanĝis kaj fortrinkis sian tutan havaĵon… Kaj li estas feliĉa! Sed ĉar li estas pli bruteca ol vi, li malamas min ĉar mi ne agis kiel li. Kiun kulpon havas mi? Tio estis mia misfortuno. Mi agis kiel formiko; ĉio al mi prosperis, ĉio al mi prosperas; se mi metus akvon en la lampojn, mi kredus ke ĝi brulus kiel oleo. Kiun kulpon havas mi?… Kaj mi devas ŝvitlabori dumtage kaj pensi dumnokte; pripensi tion kaj jenon, mil aferojn!… Mia kapo ekŝvebas en la aero… Kaj mi volus dormi la profundan dormon kiun vi dormas, sur via malmola pajlomatraco! Al kio utilas, ke mia lito havas tri matracojn el selektita lano, molajn kaj bone skuitajn? Mia kapo ekŝvebas en la aero! Mi turnas min tien kaj ĉi tien… Jes, ja! Ve se mi dormadus kiel vi, ronkante laŭte! Kiu zorgus la falĉrikoltadon, la draŝadon? Kiu la vinberrikolton? Ĉu mi havas eble la tempon spiri? Vi ridas, bestaĉo, kvazaŭ mi dirus stultaĵojn… Kaj mi refoje diras al vi ke mi volonte interŝanĝus vian staton kun la mia!”.

“Ni ĝin interŝanĝu, via moŝto!”

“Vi malbenus mian animon cent fojojn tage!”

“Sed finfine, de nun ĝis post cent jaroj, via moŝto ne kunportos ĉion en la transmondon. Por kiu vi laboras?”

“Ĉu mi tion scias? Tio estas mia kruco, ĉu ne komprenas vi? Ĉu mi eble ĝuas ĉi tiun tutan riĉaĵon?… Ĉar, vi tion bone scias, ja estas tioma abundo, ja estas! La magazeno de la tritiko plenas kiel ovo; la kelo havas eĉ ne unu barelon malplena; la provizejo enhavas kvardek ĵarojn plenplenajn ĝis la rando … Kaj krome… kaj krome! Se mi dirus al vi kiom ŝuldas al mi barono Pitulla? Per pezaj hipotekoj… Eh… Eh… Sed kiom gravas? Li amuziĝas en Napolo, en Romo, en Torino, en Parizo… Kaj mi estis en Romo nur unu fojon, pilgrime, por vidi la Papon!… Kaj se mi ne estus tuj reveninta, adiaŭ rikolto! Ĉu rajtas je ioma amuzigo mi?… Neniom, neniom! Mia kruco estas ĉi tiu. Estu farata la Dia volo!”.

Kaj mastro Petro d’ Accurso, nomata la Ĝibulo, maljuniĝadis, bone manĝante, bonege trinkante, dika, rozkolora, ronda, kun sia ĉiama plendo surlipe, ĉiam predikante, ke ne ekzistas pli aĉa mizero ol esti riĉa, neniam donante almozon al kiu ajn, eĉ al sia frato kiu havis ok gefilojn kaj ne sciis kiel ilin satigi per sia mizera salajro de kampogardisto; donante tamen la iomon por pretervivi al multaj personoj, pagante akurate ĝis lasta groŝo, sed neniam unu groŝon plian, samkiel eĉ ne unu malplian. Egoisto jes, sed sincera en sia lamentado kaj en sia plej ŝatata aforismo: Ne ekzistas pli aĉa mizero ol riĉeco!

Kaj tio videblis tre bone dum lia lasta malsano.

Kiam li rimarkis, ke lia lasta horo alvenis, li sendis alvoki la fraton: “Aŭskultu, Nanni; vin trafas granda malfeliĉo: vi estas iĝonta riĉa, tre riĉa. La Sinjoro kompatu vin. Prizorgu la funebraĵon. Vi estos devigata elspezi kelkajn milojn da liroj. Kion fari? La mono estas tie, en tiu tirkesto. La mizeruloj iras en la transmondon sen torĉoj, nek pastroj, nek koncerto; mi estas riĉa kaj mi devas prizorgi tiujn mizeraĵojn ankaŭ ĉe mortohoro!… Aŭskultu Nanni: bela ĉerko el malhela nuksoligno, tegata per sateno… Ĝi kostos al vi multe… Sed kion fari? Vi, se vi mortintus kiel kampogardisto, vi devus kontentiĝi per ĉerko de la Komunumo… Vi elturniĝus, sen doni al vi ajnan zorgon, sen elspezo de eĉ unu groŝo. Finite, mi foriras. Mi bedaŭras ke mi kaŭzis al vi tiun malbonŝancon, tiun grandan damaĝon, ke mi lasas vin riĉa… Faru la Dian volon, samkiel mi faris ĝin!… Mi iras tien supren reguligi la kontojn!… Kiu scias kiel tio sukcesos? Ni esperu bone. Pripensu tion kion mi diris ke vi prizorgu: ĉerkon, funebraĵon, koncerton… Kaj… rapidu… Rapidu… Sendu al mi ĉi tien la konfesprenanton!

Luigi Capuana, trad. Michela Lipari

(el: Carlo Minnaja, “Luigi Pirandello kaj aliaj siciliaj aŭtoroj”, Milano, FEI 2012, paĝoj 13-17)

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