Homoj

Angelo Mai

La 7-a de marto estas la datreveno de la naskiĝo (en 1782) de Kardinalo Angelo Mai (1782-1854)

it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Mai

(ne ekzistas pri li Vikipedia paĝo en Esperanto),

konata precipe ĉar li retrovis, en vatikana palimpsesto kaj pere de kemiaĵoj, ampleksajn fragmentojn de la verko “De Republica” de Cicerono.

Por tiu okazo (kiu vekis grandan sensacion), Giacomo Leopardi (1798-1837) verkis la odon “Al Angelo Mai post kiam li malkovris la librojn de Cicerono pri «La Respubliko»”.

Mi transskribas la odon, en la itala (kies lingvaĵo intertempe fariĝis arkaika) kaj en ĝia traduko al Esperanto.

Mi aldonas:

– italan poŝtmarkon de 1937, pro la unuajarcenta datreveno de la morto de Giacomo Leopardi; 

– la kovrilon de la volumo de Nicolino Rossi “Giacomo Leopardi – Kantoj”, kun la versio al Esperanto de ĉiuj “Kantoj” de Leopardi.


III

AD ANGELO MAI

quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica

Italo ardito, a che giammai non posi

di svegliar dalle tombe

i nostri padri? Ed a parlar gli meni

a questo secol morto, al quale incombe

5 tanta nebbia di tedio? E come or vieni

sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,

voce antica de’ nostri,

muta sì lunga etade? E perché tanti

risorgimenti? In un balen feconde

10 venner le carte; alla stagion presente

i polverosi chiostri

serbaro occulti i generosi e santi

detti degli avi. E che valor t’infonde,

italo egregio, il fato? O con l’umano

15 valor forse contrasta il fato invano?

Certo senza de’ numi alto consiglio

non è ch’ove più lento

e grave è il nostro disperato obblio,

a percoter ne rieda ogni momento

20 novo grido de’ padri. Ancora è pio

dunque all’Italia il cielo; anco si cura

di noi qualche immortale:

ch’essendo questa o nessun’altra poi

l’ora da ripor mano alla virtude

25 rugginosa dell’itala natura,

veggiam che tanto e tale

è il clamor de’ sepolti, e che gli eroi

dimenticati il suol quasi dischiude, 

a ricercar s’a questa età sì tarda

30 anco ti giovi, o patria, esser codarda.

Di noi serbate, o gloriosi, ancora

qualche speranza? In tutto

non siam periti? A voi forse il futuro

conoscer non si toglie. Io son distrutto

35 né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro

m’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno

è tal che sogno e fola

fa parer la speranza. Anime prodi,

ai tetti vostri inonorata, immonda

40 plebe successe; al vostro sangue è scherno

e d’opra e di parola

ogni valor; di vostre eterne lodi

né rossor più né invidia; ozio circonda

i monumenti vostri; e di viltade

45 siam fatti esempio alla futura etade.

Bennato ingegno, or quando altrui non cale

de’ nostri alti parenti,

a te ne caglia, a te cui fato aspira

benigno sì che per tua man presenti

50 paion que’ giorni allor che dalla dira

obblivione antica ergean la chioma,

con gli studi sepolti,

i vetusti divini, a cui natura

parlò senza svelarsi, onde i riposi

55 magnanimi allegràr d’Atene e Roma.

Oh tempi, oh tempi avvolti

in sonno eterno! Allora anco immatura

la ruina d’Italia, anco sdegnosi

eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo

60 più faville rapia da questo suolo.

Eran calde le tue ceneri sante,

non domito nemico

della fortuna, al cui sdegno e dolore

fu più l’averno che la terra amico.

65 L’averno: e qual non è parte migliore

di questa nostra? E le tue dolci corde

susurravano ancora

dal tocco di tua destra, o sfortunato

amante. Ahi dal dolor comincia e nasce

70 l’italo canto. E pur men grava e morde

il mal che n’addolora

del tedio che n’affoga. Oh te beato,

a cui fu vita il pianto! A noi le fasce

cinse il fastidio; a noi presso la culla

75 immoto siede, e su la tomba, il nulla.

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,

ligure ardita prole,

quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti

cui strider l’onde all’attuffar del sole

80 parve udir su la sera, agl’infiniti

flutti commesso, ritrovasti il raggio

del Sol caduto, e il giorno

che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;

e rotto di natura ogni contrasto,

85 ignota immensa terra al tuo viaggio

fu gloria, e del ritorno

ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

non cresce, anzi si scema, e assai più vasto

l’etra sonante e l’alma terra e il mare

90 al fanciullin, che non al saggio, appare.

Nostri sogni leggiadri ove son giti

dell’ignoto ricetto

d’ignoti abitatori, o del diurno

degli astri albergo, e del rimoto letto

95 della giovane Aurora, e del notturno

occulto sonno del maggior pianeta?

Ecco svaniro a un punto,

e figurato è il mondo in breve carta;

ecco tutto è simile, e discoprendo,

100 solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta

il vero appena è giunto,

o caro immaginar; da te s’apparta

nostra mente in eterno; allo stupendo

poter tuo primo ne sottraggon gli anni;

105 e il conforto perì de’ nostri affanni.

Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo

Sole splendeati in vista,

cantor vago dell’arme e degli amori,

che in età della nostra assai men trista

110 empièr la vita di felici errori:

nova speme d’Italia. O torri, o celle,

o donne, o cavalieri,

o giardini, o palagi! a voi pensando,

in mille vane amenità si perde

115 la mente mia. Di vanità, di belle

fole e strani pensieri

si componea l’umana vita: in bando

li cacciammo: or che resta? Or poi che il verde

è spogliato alle cose? Il certo e solo

120 veder che tutto è vano altro che il duolo.

O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa

tua mente allora, il pianto

a te, non altro, preparava il cielo.

Oh misero Torquato! il dolce canto

125 non valse a consolarti o a sciorre il gelo

onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,

cinta l’odio e l’immondo

livor privato e de’ tiranni. Amore,

amor, di nostra vita ultimo inganno,

130 t’abbandonava. Ombra reale e salda

ti parve il nulla, e il mondo

inabitata piaggia. Al tardo onore

non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,

l’ora estrema ti fu. Morte domanda

135 chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

Torna torna fra noi, sorgi dal muto

e sconsolato avello,

se d’angoscia sei vago, o miserando

esemplo di sciagura. Assai da quello

140 che ti parve sì mesto e sì nefando,

è peggiorato il viver nostro. O caro,

chi ti compiangeria,

se, fuor che di se stesso, altri non cura?

Chi stolto non direbbe il tuo mortale

145 affanno anche oggidì se il grande e il raro

ha nome di follia;

né livor più, ma ben di lui più dura

la noncuranza avviene ai sommi? O quale,

se più de’ carmi, il computar s’ascolta,

150 ti appresterebbe il lauro un’altra volta?

Da te fino a quest’ora uom non è sorto,

o sventurato ingegno,

pari all’italo nome, altro ch’un solo,

solo di sua codarda etate indegno

155 Allobrogo feroce, a cui dal polo

maschia virtù, non già da questa mia

stanca ed arida terra,

venne nel petto; onde privato, inerme,

(memorando ardimento) in su la scena

160 mosse guerra a’ tiranni: almen si dia

questa misera guerra

e questo vano campo all’ire inferme

del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena

scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto

165 silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

Disdegnando e fremendo, immacolata

trasse la vita intera,

e morte lo scampò dal veder peggio.

Vittorio mio, questa per te non era

170 età né suolo. Altri anni ed altro seggio

conviene agli alti ingegni. Or di riposo

paghi viviamo, e scorti

da mediocrità: sceso il sapiente

e salita è la turba a un sol confine,

175 che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,

segui; risveglia i morti,

poi che dormono i vivi; arma le spente

lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine

questo secol di fango o vita agogni

180 e sorga ad atti illustri, o si vergogni.

Giacomo Leopardi

°°°°°

III

AL ANGELO MAI

post kiam li malkovris la librojn de Cicerono pri “La Respubliko”

 

Italo brava, kial vi el tomboj 

ne ĉesas veki tiun 

patraron nian ? Ilin vi alspronas 

vorti al ĉi jarcento morta, kiun 

5 alŝvebas tednebul’? Kaj kiel sonas 

nun tiom forta, vi, kaj ripetkria 

prapatra voĉ’ antikva, 

muta longtempe? Kaj da releviĝoj 

kial abundo? Fulme nin aliras 

10 librar’ fekunda; al sezono nia 

la polvoplenaj klostroj 

kaŝite gardis noblajn eldir-riĉojn 

sanktajn de l’ avoj. Kia, vin inspiras 

fatovalor’, Italo? Aŭ ĉu eble 

15 al homvalor’ kontrastas fato feble?

Certe sen alta, dia konsildono, 

kiam pli pezas sente 

nia forges’ kaj lante malŝatatas, 

ne venas skui nin ĉiumomente 

20 nova krio prapatra. Plu kompatas 

al Itali’ ĉielo. Plu koncerna 

pri ni kelk eternulo: 

ĉar jen la horo, ne cetera 

por re-almani lukte pri virtmiroj 

25 rustintaj de l’ natur’ italeterna, 

aŭdas ni, ke l’ ululo 

tiomas de l’ sepultaj, el subtera 

forges’ preskaŭ reveni heroviroj 

por esplori ĉe nia epok’ tarda 

30 ĉu estu, vi Patrio, plu kovarda. 

De ni, vi l’ gloraj, gardas plu esperon? 

Ĉu estas ni en ĉio 

pereintaj? Al vi eble l’ futuron 

plu koni konsentitas? Rompis 

35 tio min, nek doloro ĉesas, ĉar obskuron 

vartas estonto mia, kion mi 

distingas revfabelo 

ŝajnigas la esperon. Bravanimaj, 

en viaj domoj fia, senhonora 

40 plebo postvivis; vian sangon kri’ 

parola kaj verkbelo 

mokis valore; nek viaj sublimaj 

gloroj envion, honoron nutris; vora 

senag’ ĉirkaŭas viajn verkojn; fie 

45 ni ekzemplas al postepok’ racie. 

Klera geni’, se homojn ne koncernas 

niaj prapatroj altaj, 

al vi plej gravas, ĉar vin fat’ alspira 

benignas kaj per vi ŝajnas alsaltaj 

50 nin tiuj tagoj, kiam el misbrila 

forges’ jarcenta kapon suprentiris, 

per la studoj sepultaj, 

la olduloj diecaj, de naturo 

kaŝe inspirtrafitaj, kies helon 

55 kleran kaj Romo kaj Aten’ admiris. 

Ho ve, tempoj envultaj 

al dorm’ eterna! Tian nematuro 

plu plagis Italion, plu misŝvelon 

agturpan vartis ni, kaj tra l’aero 

60 scintilis flam’ el ĉi fervora tero. 

Estis varmaj la cindroj viaj sanktaj, 

senjuga malamiko 

de fortuno, al kies pen’ malŝata 

estis Hadeso pli ol ter’ amiko. 

65 Hadeso: ĉu ne part’ pli dezirata 

ol la nia? Kaj viaj dolĉaj kordoj 

ankoraŭ tremsonoras 

de via dekstra tuŝo, vi misfata 

amanto. El doloro, ve, estiĝas 

70 la kant’ itala. Tamen malpli l’ mordoj 

mavaj peze doloras 

ol tedo nin droniga. Vi beata, 

kiun vivtenis ploro! Ĉe ni riĉas 

stringa l’ enuo: apud ĉia nio 

75 sidas lulile, tombe la nenio.

 

Sed via vivo kun la mar’ kaj astroj 

fluis, brava Liguro, 

kiam trans la kolonoj kaj la bordoj

kie siblon ĉe l’ sunoplonĝa kuro, 

80 ŝajnis aŭdi vespere, al ondhordoj 

senlimaj flose, vin radie oris 

la sun’ falinta, l’ tago 

ĵusa, kiu ĉi-plage ekalfundas; 

rompite de natur’ kontrasto ĉia, 

85 vastnekonata lando vin prigloris

vojaĝe, riska ago 

revene. Ho ve. kiam nin inundas 

kono, ol kreski ŝrumpas mondo tia, 

pli vasta ŝajnas mar’, ĉiel’ kaj tero 

90 al bebokul’, ol al saĝula klero.

Niaj revoj gajsentaj kien iris 

pri la loko arkana 

de nekonataj gentoj, aŭ de l’ taga 

loĝej’ de astroj, aŭ de l’ lit’ lontana 

95 de la juna Aŭroro, aŭ de l’ svaga

dumnokta dormo de la ĉefplanedo? 

Jen ĉio ekvanuis 

kaj jen mondo bildiĝas etamape; 

ĉio similas, kaj per plumalkovro, 

100 nur la nenio kreskas. Tiu kredo 

memtrompa tuj forfluis 

ĉe l’ verapero; nia mens’ eskape 

de vi eterne disas; via povo 

al ni sorĉa tra l’ jaroj sin estingis, 

105 kaj nia vivkonsol’ al mort’ atingis. 

Dume al dolĉaj revoj vi naskiĝis 

kaj brilis suno dista

al vi, bardo de l’ amo kaj armiloj,

kiuj en aĝ’ ol nia malpli trista

110 plenigis vivon per eraraj briloj:

nova esper’ itala. Ho punĉeloj,

turoj, ho kavaliroj,

ho damoj kaj ĝardenoj! Vin pensante 

en mil vanaj delicoj sin disperdas 

115 ĉi mia menso. El vanecaj beloj,

fabloj, strangaj pensmiroj 

konsistis homa vivo: forpuŝante 

ilin ni ĉasis: kio nun? Nun verdas 

esperoĉarm’ ne plu? Jen certe nuras 

120 vidi, ke ĉio vanas, nur sufer’ sekuras.

Ho Torquato, al ni jam via alta 

menso, al vi la ploro. 

alio ne, pretiĝis far ĉielo. 

Ho mizera Torquato! L’ kantsonoro 

125 ne povis vin konsoli nek korgelo 

fluiĝis, ĉar animon vian sunan 

hato kaj fimalŝato

kortega kaj l’ tirana stringis. Arda 

Amor’, de nia viv’ tromp-lasta plago 

130 forlasis vin. Reala ombro bruna 

ŝajnis al vi l’ nenio, kaj l’ mondstato 

lok’ neloĝata. Al honoro tarda 

via rigard’ ne ĝisis, ne damaĝo, 

sed bono via hor’ ekstrema. Morto 

135 vin laŭrokronis, ne l’ poeta vorto. 

Revenu, do, al ni, el tombo muta 

ekstare nin alkriu, 

se angoron vi celas, ho mizera 

ekzemplo de fiŝanco. Tre ol tiu, 

140 kiu al vi tristmorna kaj sufera 

ŝajnis, jen nia viv’ pli fias. Kara, 

kiu prikompatus vin 

se, krom sin mem, neniu vin pritraktas? 

Kiu ne dirus stulta penon vian 

145 mortalan eĉ ĉi-tage, se l’ o rara 

kaj granda nomas sin 

frenezo; sed neglekto pli kompaktas 

dure ol hato al la grandaj? Kian, 

se pli ol versoj komputad’ resonas, 

150 laŭron al vi ĉi-foje ni proponas? 

Post vi ĝis nun estiĝis ne la homo, 

ho mizersorta bardo, 

inda je l’ nom’ itala, krom la nura, 

nur neinda je sia tempkovardo, 

155 Piemontan’ fiera, kies pura 

virovirtem’ devena el ĉielo, 

ne el ĉi laca lando 

seka, ĉe li brustloĝis: tial li 

(memorinda bravec’) ekmovis scene 

160 militon al tiranoj: vortduelo 

iĝu ĉi militskando 

sur tiu vana kamp’ al kolerkri’ 

de l’ mondo. Li tutsola surarene 

unue luktis nesekvate, ĉar 

165 nin premas fie muta la senfar’. 

Disdegne agovibra, li la vivon 

pasigis senmakula, 

kaj morto savis lin el mavoj pliaj. 

Viktoro mia, ĉi epok’ pigrula, 

170 ĉi land’ al vi ne taŭgis, sed alia 

epok’ kaj tero pli. Ni de senflama 

sato vivas missortaj 

ĉe mezvaloro: sinkis la klermensa 

kaj sin levis la grego al nivelo 

175 mondegaliga. Malkovranto fama, 

daŭrigu: vi veku l’ mortajn, 

ĉar dormas la vivantoj; per intensa 

vibro armu hero-langojn: fincelo 

de ĉi kota jarcent’ iĝu sopiro 

180 al plej noblaj vivagoj, aŭ hontspiro. 

Giacomo Leopardi, trad. Nicolino Ross

 (el “Giacomo Leopardi: Kantoj”,

Rolando, Napoli 2012, p. 48-542).

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