Personaggi

Mastro Titta

Il 6 marzo ricorre la nascita (nel 1779) di Giovanni Battista Bugatti (1779-1869), detto Mastro Titta oppure (in romanesco) “er boja de Roma”
it.wikipedia.org/wiki/Mastro_Titta
Cominciò ad eseguire sentenze di morte (in quello che all’epoca era il “Regno del Papa”) il 22 marzo 1796, quando aveva appena 17 anni, e continuò fino al 1864, quando ne aveva 85 (e fu messo in pensione perché l’ultima decapitazione non fu eseguita correttamente); in totale, nella sua “carriera” ammazzò 514 condannati, indossando un mantello scarlatto conservato oggi nel Museo romano di criminologia.
Da allora, l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti della pena di morte è notevolmente cambiato; un’ampia trattazione delle novità contenute in proposito nel nuovo “Catechismo della Chiesa cattolica” si trova nel numero 1994-6/7 (giugno-luglio 1994) della rivista esperantista “Espero katolika”, di cui allego la copertina.
Una curiosità poco nota: formalmente, la pena di morte nello Stato della Città del Vaticano è stata abolita soltanto il 12 febbraio 2001, su iniziativa di Papa Giovanni Paolo II. Infatti, subito dopo la sua nascita (nel 1929), il nuovo Stato adottò il codice penale italiano (del 1931), che prevedeva la pena di morte; la nuova Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948 stabilì all’art. 27 che “Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”; e la legge 13 ottobre 1994, n. 589 abolì la pena di morte anche nel codice penale militare di guerra. Però i giuristi (lo dico, da ex giudice, come “persona informata dei fatti”) amano sottilizzare, e distinguono due forme di rinvio da una norma ad un’altra, il rinvio statico detto “recettizio” (che assume materialmente il contenuto della norma richiamata così com’è in quel momento, e rimane indifferente alle sue successive modifiche) ed il rinvio “non recettizio”, di tipo dinamico, che invece è costantemente collegato alle modifiche che intervenissero nella norma richiamata. Poiché nel campo del diritto internazionale la regola è quella del rinvio recettizio (statico), l’abolizione della pena di morte nell’ordinamento italiano era rimasta priva di effetti in quello della Città del Vaticano, e fu necessaria una specifica abolizione.
Gli uomini di oggi hanno in mente una figura bonaria di Mastro Titta, perché così viene presentato nella commedia musicale “Rugantino”
it.wikipedia.org/wiki/Rugantino_(commedia_musicale)
ma in precedenza la sua fama era quella di uno spietato servitore del governo del Papa, tanto che in passato, a Roma e nei territori che fecero parte dello Stato Pontificio (Bugatti, ad esempio, era nato a Senigallia nelle Marche), “Mastro Titta” era sinonimo di “boia”, ed a sua volta “boia” è ancora oggi sinonimo di “canaglia”.
C’è di più: il nomignolo, divenuto nome comune, fu applicato anche a coloro che avevano preceduto il vero Mastro Titta nell’incarico; ne è un esempio un sonetto del poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, scritto nel 1830, in cui si cita “Mastro Titta” per l’impiccagione di un omicida, Antonio Camardella, avvenuta però nel 1749, molto prima della nascita di Giovanni Battista Bugatti.
Il sonetto parla di un padre che mostra al figlioletto lo “spettacolo” dell’impiccagione, e gli dà un forte schiaffo per “educarlo” a comportarsi bene, se non vuole fare la stessa fine. Ne allego il testo in romanesco, e la traduzione in Esperanto di Gaudenzio Pisoni (da “Elektitaj sonetoj de G.G. Belli, FEI, 1982 feilibri@esperanto.it ).
Tra un’esecuzione e l’altra, Mastro Titta (che come boia non aveva un rapporto di lavoro fisso, ma era pagato, si potrebbe dire “a tanto a testa””) si guadagnava da vivere vendendo ombrelli.
Naturalmente non era amato dai romani, e per questo gli era proibito, per prudenza, di passare dall’altra parte del Tevere (la corte pontificia, come oggi il Vaticano, era sulla destra del fiume, mentre la città storica era ed è sulla sinistra), tanto che a Roma è rimasto il proverbio “boia nun passa ponte”, per dire che ognuno deve fare solo il suo mestiere. Un’eccezione veniva fatta quando c’era da eseguire una sentenza capitale (cosa che avveniva nella parte della città a sinistra del Tevere); ancora oggi, quando si profila un pericolo incombente, a Roma si dice “boia passa ponte”.
Il “ponte” di cui si parla era l’antico ponte davanti Castel Sant’Angelo; ne allego un’immagine ottocentesca, anteriore alla costruzione dei muraglioni, da un acquarello del pittore romano di origine tedesca (sudeta) Ettore Roesler Franz
it.wikipedia.org/wiki/Ettore_Roesler_Franz
conservato al Museo di Roma.


 

68. ER RICORDO

 

Er giorno che impiccorno Gammardella

io m’ero propio allora accresimato.

Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato

me pagò un zartapicchio e ‘na sciammella.

 

Mi’ padre pijjò ppoi la carrettella,

ma pprima vorze gode l’impiccato:

e mme tieneva in arto inarberato

discenno: “Va’ la forca cuant’è bbella!”.

 

Tutt’a un tempo ar paziente Mastro Titta

j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene

un schiaffone a la guancia de mandritta.

 

“Pijja”, me disse, “e aricordete bbene

che sta fine medema sce sta scritta

pe mmill’antri che sso’ mmejjo de tene”.

 

Giuseppe Gioachino Belli

 

 

REMEMORO

 

Dum ekzekutotag’ de Gamardelo

mi konfirmaciiĝis kaj, tuj poste,

la prezentinto, ne tro multekoste,

regalis min per kuk’ kaj Pulĉinelo.

 

Kaleŝon luis paĉjo kun la celo

ĝui la pendigoton antaŭtoste:

kaj diris, min levante premaoste,

“Jen, estas pendigilo! Kia belo!”.

 

Kiam al la kliento Majstro Tita

piedfrapegis pugon, samminute

vangofrapegis min paĉjo, subita.

 

“Memoru – diris li – ke ekzekute

aliajn mil fintrafos mort’ merita,

kiuj ja bonas pli ol vi entute”.

 

Giuseppe Gioachino Belli, trad. Gaudenzio Pisoni

(el “Elektitaj sonetoj de G. G. Belli”)

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